lunedì 14 ottobre 2024

S: Mongiardo- Lettera ai Calabresi per la pace nel mondo

S. Mongiardo-Lettera ai Calabresi per la pace nel mondo

 Care Amiche e cari Amici,

io sono nato nel 1941 in Calabria da genitori e progenitori calabresi. Ho passato l’infanzia e la gioventù sulla costa jonica catanzarese; poi cinquanta anni tra studi e incarichi manageriali in Sicilia, Roma, Germania, Francia, Sardegna e un periodo di trenta anni a Milano. Nel 2013 ho lasciato per mia libera scelta Milano per tornare in Calabria, a Soverato, città vicina al mio paese natale, Sant’Andrea Jonio. Quel ritorno era preannunciato nel mio primo libro Ritorno in Calabria (1994), del quale il Prof. Antonio Piromalli ha scritto ne La Letteratura Calabrese (L. Pellegrini Editore) alle pagine 341 e 342:

 La natura di Mongiardo è seriamente utopistica (ripresa della grande tradizione culturale naturalistica della Calabria e religiosità umana e universale) …

Il romanzo di Mongiardo è molto importante anche perché assegna alla Calabria una funzione storica nel futuro… L’opera di Mongiardo è ideologicamente geniale. L’autore, dopo un viaggio in America per ritrovare parenti emigrati da molto tempo e custodi dell’immagine di una Calabria aspra e difficile, comprende lo sforzo da lui fatto per sfuggire la Calabria, quella del ‘’buco nero che aveva spento’’ il lui la gioia di vivere e decide di scrivere.

 Riporto lo scritto del Prof. Piromalli non per orgoglio o vanagloria, che non fanno parte del mio carattere, ma perché quel giudizio mi ha aiutato a capire me stesso e a farmi ritornare in Calabria, una decisione che lasciò sgomenti i miei amici, i quali mi vedevano come uno sconsiderato che ritorna in un posto carico di problemi. In effetti, gli ultimi dieci anni passati in Calabria sono stati faticosi per lo studio, la ricerca e la scrittura di quella storia della Calabria sconosciuta a tutti, anche agli stessi Calabresi, ignorata dalla storiografia tradizionale. Le mie ricerche hanno portato alla luce una visione completamente nuova della Calabria, che vi voglio brevemente raccontare. 

 La storia sconosciuta della Calabria

Normalmente si ritiene che la storia della Calabria sia cominciata con la colonizzazione greca, ma non è così, perché l’Homo Sapiens abitava in Calabria da diecine di migliaia di anni prima dell’arrivo dei Greci. Per fare un esempio, l’Università di Firenze ha rinvenuto sepolture risalenti al 22.500 a.C. dentro la Grotta del Romito a Papasidero (CS).

Intorno al 10.000 a. C., quando si sviluppò l’agricoltura, la Calabria era abitata da popolazioni che non avevano armi e vivevano in pace in vari villaggi. Facevano parte di quell’Antica Europa, come l’ha chiamata la famosa antropologa lituana-americana Marija Gimbutas, i cui abitanti furono chiamati gilanici dall’altra grande antropologa austriaca-americana, Riane Eisler. Col termine gilanico lei intendeva un popolo libero e pacifico, guidato dalle donne e dedito all’agricoltura. Quel periodo fu cantato dai poeti come Età dell’Oro, quando i popoli vivevano felici, non c’era bisogno di leggi e la comunità provvedeva a tutti i bisogni.

Oggi possiamo affermare che quella non fu un’epoca mitica immaginata dai poeti, ma era semplicemente il ricordo di un lontano tempo felice. Gli archeologi hanno stabilito che le popolazioni gilaniche vivevano in pace, analizzando i resti dei villaggi, dove non c’erano fortificazioni né sono state trovate armi nelle tombe o scheletri con ferite riconducibili a battaglie. Non vi erano nemmeno grandi differenze tra le classi sociali e le sepolture a inumazione erano molto simili, come se non ci fossero ricchi e poveri. 

 

            L’invasione indoeuropea

Intorno al 4.000 a. C., dalle steppe dell’attuale Russia meridionale mossero alla conquista dell’Europa e dell’India - motivo per cui sono chiamati Indeuropei - popoli delle steppe che avevano addomesticato i cavalli selvaggi che cavalcavano, e avevano fatto armi col rame che affiorava in pepite lungo i fiumi. Quegli Indoeuropei sottomisero l’Antica Europa, l’India e una vasta area intorno al Medio Oriente, con invasioni a varie ondate cui nessuno poteva resistere. Il loro dilagare è ricordato dal mito greco dei centauri, esseri violenti per metà guerrieri e per metà cavalli. Anche dal cavallo di Troia in fondo afferma che senza cavallo non si può vincere una guerra. Quelle invasioni durarono un paio di millenni e sottomisero tutto il Nord Europa, salvo una parte dell’Italia Meridionale, tra cui la Calabria. La Gimbutas chiamò quegli invasori Kurgan, dal nome della città russa della Siberia sudoccidentale, a circa duemila km a est di Mosca. Attorno a quella città lei trovò molte tombe a cumulo, nelle quali venivano sotterrati i capi morti assieme ad alcuni giovani scelti e servi che dovevano accompagnarlo nell’aldilà. Le torture, i sacrifici umani, la schiavitù delle donne praticati dai popoli Kurgan raggiunsero livelli di ferocia e crudeltà inaudite.

L’etica gilanica sopravvisse in Calabria, mentre tutta l’Europa incluso Centro e Nord Italia furono sottomesse dagli Indoeuropei. Le differenze tra Nord e Sud Italia si fanno risalire all’annessione del Sud al Piemonte, ma in realtà esse sono vecchie di migliaia di anni e sono profonde perché derivano da etiche diverse. La Calabria resistette più a lungo all’espansione indoeuropea perché difficile da raggiungere via terra a causa delle foreste della Sila, popolate da orsi e lupi. Poi, intorno al 1700 a. C., la Calabria fu colonizzata da greci venuti dal mare, tra cui gli Enotri, dalla cui stirpe nacque Italo, il fondatore dell’Italia, come vedremo più avanti. Tanto afferma lo storico greco Dionigi di Alicarnasso (60-7 a. C.), che scrisse di una colonizzazione arcaica, avvenuta diciassette generazioni (circa 500 anni) prima della guerra di Troia (1200 a. C.).

I Greci della colonizzazione classica, invece, quella da tutti conosciuta, arrivarono circa mille anni dopo, intorno al 700 a. C., e fondarono varie poleis tra cui Taranto, Sibari, Kroton, Locri e Reggio. I fondatori greci delle varie colonie sparse nel Mediterraneo discendevano da quegli Indoeuropei che avevano conquistato la Grecia con armi e cavalli: ciò e confermato dal fatto che alcuni Greci del ceto dominante come Achille, Menelao ed Elena era biondi, come riporta Omero.

 I coloni greci portarono la civiltà in Calabria?

            Si direbbe di sì, ma, se guardiamo a quanto emerge dalle mie ricerche, la risposta cambia a seconda di cosa intendiamo per civiltà. Se la intendiamo come arte, templi, colonne, navigazione, commercio e lingua, la risposta è sì, anche perché la stessa lingua italiana proviene dal latino, il quale è di origine indoeuropea come il greco, il tedesco, l’inglese e altre lingue ora in uso.

Se invece definiamo la civiltà come benessere sociale e gioia di vivere derivanti dall’assenza di competizione, guerre, schiavitù e violenze, la risposta è che la colonizzazione greca segnò l’inizio di una decadenza inarrestabile per la Calabria.

I coloni non portavano con sé le donne, che non potevano remare, e sposarono donne del posto, che da sempre erano libere e continuarono a vivere libere anche da sposate con i coloni. Nello stesso periodo, le donne in Grecia vivevano chiuse nel gineceo, che non era un lussuoso quartiere loro riservato, ma il sottotetto della casa, nel quale esse partorivano, tessevano, cucinavano, conducendo una vita così misera che spesso per disperazione si impiccavano a una trave del tetto. A Crotone non c’erano schiavi e a Locri, nelle Tavole di Zaleuco del VI secolo a. C., la prima legge scritta in greco di tutto l’Occidente, Grecia inclusa, diceva:  

Ai Locresi non è consentito possedere né schiavi né schiave.

Le Tavole di Zaleuco sono di fondamentale importanza perché testimoniano che la libertà italica fu riconosciuta come norma da una polis greca. Si può dire allora che la libertà delle persone e dei popoli è arrivata dalla Calabria ai confini della Terra dopo un lungo travaglio di venticinque secoli. I Greci si riempivano la bocca e morivano anche per la libertà, ma lo facevano per la libertà loro e delle loro famiglie, non certo per gli schiavi e le schiave che c’erano in Grecia. Questa ambiguità dell’etica greca è testimoniata da due filosofi ritenuti i più grandi dell’umanità: Platone e Aristotele. Platone conosceva benissimo la Magna Grecia, dove vigeva la libertà di tutti, perché egli aveva frequentato per sette anni la Scuola Pitagorica di Crotone, riaperta nel 444 a. C. per volere di Pericle: in quella Scuola la libertà era il fondamento dell’etica. Platone tuttavia affermò che… gli schiavi erano necessari, altrimenti chi avrebbe fatto i lavori? Aristotele andò oltre, sostenendo che l’etica doveva essere stabilita dai politici! L’etica di quei due cattivi maestri, ricchi e di buona famiglia, era esattamente contraria a quella praticata dai pitagorici.

             Il popolo sconosciuto dei Lacini

Nelle opere degli antichi autori greci e romani, come anche negli usi e nei costumi dei popoli preitalici e italici, ci sono riferimenti chiari a questo popolo. In sintesi possiamo dire che i Lacini abitavano tutto il Golfo di Squillace e l’entroterra, da Locri a Capo Lacinio vicino a Crotone, e soprattutto l’altipiano fertile della Lacina, così chiamata ancora oggi, sito tra Serra San Bruno e la costa jonica. Per maggiori dettagli di questa mia ricerca, guardate il documento allegato:

https://drive.google.com/file/d/16pkubx65S0eP0FHP1vAG4eWevBaL7Laa/view?usp=sharing

 I Lacini erano un popolo gilanico che da millenni abitava la Calabria, la quale, a partire dai Greci, ha subito venti occupazioni e dominazioni straniere: 1 - i Greci; 2 - Alessandro il Molosso, re dell'Epiro; 3 - suo nipote Pirro con gli elefanti; 4 - i Bruzi; 5 - i Siracusani con Dionisio; 6 - i Cartaginesi con Annibale, acquartierato a Capo Lacinio per otto anni; 7 - Spartaco con gli schiavi; 8 - i Romani; 9 - Alarico con i Goti; 10 - i Longobardi; 11 - gli Arabi; 12 - i Bizantini; 13 - i Normanni; 14 - gli Svevi; 15 - gli Angioini; 16 - gli Aragonesi; 17 - gli Spagnoli; 18 - i Borboni; 19 - i Francesi; 20 - i Piemontesi.

La Calabria, però, non ha mai fatto guerra a nessuno, una particolarità che Fra Salimbene da Parma (1221-1288), seguace di San Francesco d’Assisi nell’abito ma non nel cuore, attribuì a viltà, perché non erano insorti in armi contro i Normanni. In realtà i Calabresi non avevano e non hanno la guerra nell’anima, a differenza degli altri abitanti dell’Italia di origine indoeuropea, come i Latini, gli Etruschi e i Galli.

           La nascita dell’Italia  

Lo storico Antioco di Siracusa nel V sec. a. C. scrisse della Prima Italia (Prote Italìa), nata nell’istmo Squillace-Lamezia intorno al 1500 a. C. Non dobbiamo pensare che l’Italia sia nata confinata dentro l’Istmo, ma in un territorio più ampio di cui l’Istmo costituiva l’asse mediano. Ciò è avvenuto a causa del clima più piovoso per lo scambio termico dei venti che attraversano e temperano l’Istmo attraverso la Gola di Marcellinara: il ponente da ovest e lo scirocco da sud, per cui si potrebbe dire che l’Italia è figlia del buon vento. Ciò ha generato il fenomeno raro della fruttificazione perenne: ancora oggi non c’è in quella zona un solo mese senza frutti.

D’altra parte, le minuziose ricerche condotte dal tedesco Prof. Armin Wolf nel suo importante libro Ulisse in Italia (2021), dimostrano che la Terra dei Feaci, narrata da Omero nell’Odissea, è quella vicino al fiume Làmetos, che sbocca nel Tirreno all’altezza dell’odierna Lamezia. Lì vicino viveva un popolo di Enotri, arroccati nell’odierna cittadina di Tiriolo (CZ), da dove si vedono i due Mari Jonio e Tirreno, come espressamente riporta lo stesso Omero.

             Chi era Italo

Tutti gli storici antichi concordano che Italo era uno degli Enotri della colonizzazione arcaica, il quale doveva essere figlio di un greco enotrio e di una donna del posto. Italo apparteneva dunque a due parentele e a due culture, la greca e la locale, e non gli fu difficile capire che le armi non creavano benessere, mentre i locali vivevano nell’abbondanza con i raccolti dell’agricoltura. Perciò egli decise di unire i suoi Enotri ai preitalici, che io ritengo soprattutto Lacini, creando i sissizi (da syn-sitein, mangiare insieme), banchetti comunitari ai quali gli Enotri portavano il vino e i Lacini il pane. I sissizi erano dunque banchetti per unire due popoli, sissizi che poi Italo allargò, unendo con la persuasione, e a volte con la forza, i popoli circonvicini, ai quali diede il suo nome: Italìa, Italia.

Il termine italo si trova sia in latino: vitulus, che in greco: ìtalos. In ambedue le lingue, il termine significa giovane toro, torello, animale totemico dei Lacini. Quel nome era anche dato a maschi greci e a maschi romani come Vitellio, nome che fu anche di un imperatore. Ai tempi della colonizzazione classica poi, furono chiamati Italioti i nati da coloni greci e da donne italiche, che a loro volta erano nate dall’unione degli Enotri e altri coloni con i Lacini e altri popoli autoctoni.

Ovviamente la grande maggioranza della popolazione attorno all’Istmo era di origine lacina o comunque locale, per cui il modo di vivere, l’etica, rimase sostanzialmente quella neolitica. I coloni greci dovettero adattarsi a quell’etica, ma non rinunciarono alle loro armi e alle guerre che tanto amavano, e combatterono molte guerre tra le poleis, come fece Crotone contro Locri e Sibari, che distrusse nel 510 a. C.

In quello scenario complicato sbarcò a Crotone un ragazzino di forse dodici anni di nome Pitagora, venuto dall’isola greca di Samo con suo padre Mnesarco, che produceva e vendeva sigilli per anelli incisi su pietre dure o preziose, molto richiesti dai ricchi coloni. Pitagora rimase colpito dal clima di libertà di Crotone e, tornato in patria, si dedicò per cinquanta anni allo studio e ai viaggi in Grecia, Siria, Libano, Israele, Egitto e Mesopotamia. Alla fine, però, decise di voler vivere in un posto dove la dottrina da lui elaborata fosse ben accolta, e nel 530 a. C., all’età di circa sessanta anni, ritornò a Crotone.   

 Nascita della Magna Grecia   

La mente di Pitagora aveva grande capacità di analisi e sintesi e nei suoi lunghi soggiorni tra i popoli stranieri egli cercò di capire quale fosse il miglior modo di vivere. Era così arrivato a delle conclusioni originali e coniò il termine di filosofia, amore per la sapienza, che per lui non era un insieme di nozioni astratte, ma qualcosa che dava sapore alla vita, aiutava a vivere bene. Perciò diceva: L’uomo è a sé stesso causa del proprio bene e del proprio male: tutto dipendeva dall’agire umano.

Io ho chiamato la sintesi della sua dottrina Il Pentalogo di Pitagora, costituito da cinque principi, immutabili come le regole della matematica e della geometria, che ho sintetizzato così:

                                        Felicità + Pace =

Libertà + Amicizia + Comunità di vita e di beni + Dignità della donna + Vegetarismo.

 Al suo arrivo a Crotone, Pitagora fu accolto con grandi onori ed ebbe molti seguaci, ma la comunità di vita e di beni che egli voleva attuare, esigeva che i ricchi si spogliassero delle loro ricchezze, cosa che non piaceva affatto alla classe abbiente di Crotone. Porfirio, il filosofo molto apprezzato del III sec. d. C., lo stesso che scrisse le Enneadi del suo maestro Plotino, scrisse una Vita di Pitagora fortunatamente giunta fino a noi, nella quale egli scrisse di duemila barbari che con i loro capi, donne e bambini vennero dai villaggi circonvicini per ascoltare Pitagora a Crotone. La parola barbaro indicava uno che parlava una lingua sconosciuta, balbetta.

Con loro meraviglia, quei barbari Lacini, forse aiutati da nipoti o parenti italioti che facevano da traduttori, si sentirono dire dal più famoso sapiente dei Greci che il modo di vivere giusto era quello che loro stessi praticavano. Elessero allora Pitagora loro legislatore e decisero di non fare nulla al di fuori di quanto egli comandava. Costruirono un nuovo villaggio sulla collinetta di Laureta che arriva al mare, sita tra Crotone e Capo Lacinio, dove ebbe sede la sua Scuola e dove Pitagora visse tra i Lacini assieme ai suoi allievi, giovani uomini e donne, venuti da Crotone e anche da lontano.    Scrisse Porfirio che il nome di Magna Grecia dato a quell’Italia non derivava dallo splendore delle poleis né dall’abbondanza dei raccolti, ma era dato unicamente per due motivi: l’ammirazione della vita irreprensibile dei pitagorici e l’altezza della loro speculazione filosofica. Il prestigio dell’Italia diventò così alto che tutti volevano farne parte, e così il nome di Italia si espanse dalla Calabria a tutta la penisola.

Ricapitolando: il popolo autoctono dei Lacini, unendosi ai Greci, generò la Prima Italia, la quale per opera dell’etica predicata e praticata dai pitagorici, fu chiamata Magna Grecia, che diffuse nel mondo l’etica universale di rigore matematico, sempre valida per le persone, la società, le religioni, la politica e la finanza. È la stessa etica che abbiamo ripreso con la fondazione nel 2015a Crotone della Nuova Scuola Pitagorica, etica che cerchiamo di diffondere per il bene dell’umanità.  

             I sommovimenti antipitagorici

I giovani pitagorici di Crotone cercarono di influenzare le scelte politiche della loro polis, ma ciò portò a una insurrezione capeggiata da Cilone, un ricco avversario dei pitagorici. Molti di essi furono uccisi e la loro sede fu data alle fiamme, Pitagora si salvò a stento con la sua famiglia, cercando asilo a Caulonia e Locri, che glielo negarono per paura di Crotone. Riparò a Taranto, ma anche lì ci furono sommovimenti contro i pitagorici ed egli se ne andò a Metaponto, dove tenne scuola per alcuni anni. Anche lì ci fu un sollevamento contro di lui che si rifugiò nel Tempio delle Muse, dove come supplice non poteva essere catturato. Pose allora fine alla sua vita nel 500 a. C. all’età di novanta anni, perfettamente lucido dopo quaranta giorni di volontario digiuno.

Sembrava la fine, ed era invece l’inizio di un ciclo che diffuse la dottrina pitagorica nel mondo antico, arrivando fino a noi. Questa mia lettera si è forse allargata troppo, ma per capire la Calabria di oggi è indispensabile conoscere la sua storia passata, almeno per sommi capi. Per i dettagli sul pitagorismo e sui legami tra mondo ebraico e Gesù, la cui etica è identica a quella di Pitagora, guardate il mio libro Il Pentalogo di Pitagora, disponibile in rete:

https://drive.google.com/file/d/1C1Yaeh7y233RenHQJDKhvM4xfIwSh7-B/view?usp=sharing

 Queste notizie servono a darvi un’idea di quante vicende fondamentali dell’evoluzione umana si siano svolte in Calabria, la terra che oggi tutte le statistiche classificano come l’ultima d’Europa per la qualità di vita.

             Il fatale arrivo dei Normanni

L’arrivo del cristianesimo in Calabria migliorò le attese degli abitanti, perché aggiunse la prospettiva della vita eterna al pitagorismo, che insegnava invece il ciclo incessante delle reincarnazioni, la metempsicosi. Poi, intorno all’anno Mille i Normanni, originari della Scandinavia ma da secoli stanziati in Normandia, conquistarono facilmente il Sud e la Calabria, dove stabilirono la loro capitale a Mileto (RC), che poi trasferirono a Palermo nel 1101 alla morte del Granduca Ruggero d’Altavilla.

I Normanni erano cristiani discendenti da popoli nordici feroci come i Goti, gli Ostrogoti e i Longobardi. Invece i Calabresi erano cristiani di origine magnogreca, cioè pitagorica, la cui etica vietava perfino la detenzione e l’uso delle armi e vietava l’uccisione degli animali. Pitagora, difatti, stava lontano da macellai e cacciatori e ammoniva:

La pace nasce dal rispetto della vita degli animali. Se non osi uccidere l’animale, mai ucciderai un uomo.

 I Normanni instaurarono nel Sud Italia il regime feudale con la servitù della gleba, l’esser legati come schiavi alla zolla di terra: in Calabria fu ridotto in schiavitù il popolo che aveva creato e diffusa la libertà di tutti.   

I Calabresi e tutto il Sud furono gravemente tassati dai Normanni per edificare fastose cattedrali e per preparare armi e flotte per la Prima Crociata, per la quale il papa francese Urbano II nel 1192 venne a Mileto per concordare i termini della spedizione col Gran Conte Ruggero. Questi prese parte alla conquista di Gerusalemme nel 1099, e tornò con una reliquia preziosa: un dito del Protomartire Santo Stefano.  

Questi intrecci complicati mettono in luce un dissidio tuttora irrisolto tra etica e legalità. Dal punto di vista pitagorico, una legge è legale solo se non contraddice i cinque principi del Pentalogo.

Le Costituzioni di Melfi, promulgate nel 1231 dall’imperatore Federico II, nipote del Barbarossa e figlio della normanna Costanza d’Altavilla, erano pitagoricamente illegali, perché affermavano il regime feudale, secondo il quale l’imperatore era padrone assoluto di tutto, mentre duchi, principi, conti e visconti di sua nomina erano signori dei territori loro assegnati e dei popoli che li abitavano. Federico II fu chiamato stupor mundi per la sua vasta cultura, ma andrebbe considerato nella sua duplice formazione: quella pitagorica della matematica, nella quale eccelleva, e quella barbarico-feudale, ereditata dal nonno Barbarossa.

Le invasioni barbariche che disintegrarono l’impero romano non furono solo un fatto del passato: la barbarie da allora è avanzata a dismisura sul principio che uno domina sugli altri, principio da cui derivano tutte le forme di competizione, finanza e le stesse guerre, che esigono sempre vincitori e vinti.

Nella battaglia di Legnano del 1176, la Lega Lombarda vinse contro Federico Barbarossa che voleva imporre il suo dominio sui comuni dell’Italia settentrionale. Quella vittoria fu possibile perché i Lombardi, discendenti dai Longobardi, erano gente d’armi e facevano continue guerre tra di loro: Milano contro Como, Lodi, Pavia, Cremona e altri comuni. Lo stesso vale per le guerre del centro Italia, durate fino a tutto il Rinascimento, che videro infinite lotte tra Perugia e Assisi, Firenze e Arezzo, Lucca, Pisa e Siena.  

Al Sud il regime feudale sarebbe durato fino all’annessione al Regno d’Italia nel 1861, quando fu abolito il regime borbonico che lo sosteneva, ma nei fatti esso sopravvisse in parte fino a circa il 1950. Per otto secoli le popolazioni meridionali furono servi della gleba, legati alla terra dei signori che dovevano coltivare senza poterla abbandonare. Dovettero allora scendere a sotterfugi, furbizie, inganni e menzogne per non morir di fame. Era una vita da schiavi, l’unica possibile, che avrebbe spinto il Sud a una grave decadenza e alle varie forme di criminalità che l’affliggono.

Cos’è la calabritudine?

Si dice che è possibile togliere un Calabrese dalla Calabria, ma è impossibile togliere la Calabria dal cuore di un Calabrese. Sembra solo una bella frase, ed invece tutti i Calabresi, me incluso, sentiamo un legame profondo e indistruttibile con la nostra terra: è la calabritudine. Ho conosciuto diversi emigrati meridionali che rimpiangevano la loro terra, ma non in maniera così forte e con nostalgia così pungente come i Calabresi, anche quelli che hanno messo su famiglia e vivono economicamente bene. Perché, mi chiedevo, rimpiangere una terra che hanno dovuto lasciare, piena di problemi ancora oggi, dove la vita quotidiana è faticosa e problematica e non offre prospettive valide ai giovani che devono emigrare a migliaia?

Questa domanda merita una risposta alla quale ho lungamente riflettuto e che ora espongo. La Calabria ha subito una decadenza inarrestabile che dallo splendore della Magna Grecia l’ha portata alla miseria del presente. Io penso che il principale dovere di ogni persona sia quello di vivere bene e, se ciò non è possibile, bisogna allora cercare di capire e superare le cause del viver male.  

La Calabria mi sembra un secchio, dentro cui i passanti buttano rifiuti, e poi tutti si sdegnano che quel secchio è pieno di immondizie. Venti invasioni straniere possono essere considerate un accanimento del destino, ma possono anche essere viste come un fenomeno necessario per aprirci gli occhi e farci capire i meccanismi dell’evoluzione umana. Sembra un’ipotesi bizzarra, ma i fatti confermano come la decadenza possa essere un fatto provvidenziale. Goti e Visigoti, qui arrivati dai paesi scandinavi, erano barbari tra i più feroci e violenti: come mai ora la Scandinavia è abitata da popoli tra i più civili al mondo? Questo è successo perché alla fine essi hanno adottato un modello di vita comunitario che aiuta tutti e non esclude nessuno, il modello etico che qui era praticato.   

La calabritudine è il richiamo di un lontano passato, esistito ma dimenticato, che ci mette in comunicazione con lo spirito dei nostri antenati, il loro modo di pensare, di sentire e sperimentare la vita e il mondo, gli uomini e gli dei: quello che Jung chiamò inconscio collettivo.

 

I Calabresi Custodi del Sogno  

Per sogno intendo il bel sogno di un mondo felice, come fu la Calabria prima dell’arrivo dei Greci. Un mondo ben diverso da quello di oggi, nel quale viviamo sotto l’incubo che tutto possa finire con una guerra nucleare. Religioni e politica non sono riuscite a pacificare il mondo, anzi lo hanno spinto verso la violenza: negli ultimi sei mila anni i maschi di stampo indoeuropeo hanno sempre comandato, facendo proliferare la violenza con guerre, uccisioni, genocidi e distruzioni. Ma hanno fatto di più, hanno ucciso la speranza di un mondo pacificato e, senza speranza, si vive e si muore disperati.

Cambiare questa realtà sembra impossibile, ma è proprio qui che la Calabria appare come àncora di salvezza per l’umanità. Quest’affermazione audace è supportata dalla cultura calabrese, che nei millenni è stata sempre utopica, cioè ha immaginato e prospettato un mondo migliore: Cassiodoro, Gioacchino da Fiore, Tommaso Campanella e Bernardino Telesio, sono grandi autori calabresi che scrissero di un mondo migliore che doveva realizzarsi. Questa cultura sistematicamente ottimista emerge più chiara se la paragoniamo a quella della vicinissima Sicilia, dove i grandi autori come Capuana, Verga, De Roberto, Pirandello e Tomasi di Lampedusa sono irrimediabilmente pessimisti.  

Di conseguenza, il problema non è di adeguare la Calabria al mondo moderno, ma, al contrario, adeguare la Calabria e il mondo moderno all’etica universale che qui si era formata e che ora da qui risorge per pacificare le persone, la società e i popoli. Dalla Calabria nasce un sommovimento mondiale delle coscienze per portare ai posti di comando le donne, le madri e gli uomini che la pensano come le donne, donne che non hanno mai fatto guerre, ma hanno sempre aiutato e protetto la vita in ogni situazione. Senza il sogno di una vita felice e di un mondo in pace non si attiva il desiderio di realizzarlo: l’evoluzione umana rimane bloccata e tende pericolosamente verso l’involuzione, come sta succedendo sotto i nostri occhi.

             Esortazione e invito al Raduno a Crotone nel 2025

Questa lettera è iniziata rivolta ai Calabresi, non solo ai due milioni di residenti in Calabria e al mezzo milione di nati in Calabria e residenti altrove, ma anche ad alcuni milioni di figli e discendenti di Calabresi emigrati, quella che io chiamo la Grande Calabria. La disseminazione dei Calabresi nei continenti non fu voluta da un avverso destino, ma faceva parte di un ampio disegno, voluto da quella che i pitagorici chiamavano Theia Prònoia (Divina Preveggenza), affinché essi fossero il lievito della nuova Civiltà Sissiziale, che verrà da dove uno meno se l’aspetta: dalla Calabria.

Questa lettera è rivolta in realtà all’umanità intera, alla quale abbiamo il dovere di dire un’amara verità. I maschi hanno fatto e fanno le guerre per il piacere di distruggere e uccidere: un bisogno irrefrenabile, per soddisfare il quale trovano sempre soldi senza limiti. I conflitti di Medio Oriente e Ucraina-Russia confermano che ammazzare o farsi ammazzare è bello, degno e glorioso, anche se esige la propria morte.  

Il sommovimento pacifico che noi proponiamo è il più grande e affascinante della storia, e mira a portare la pace nel mondo col solo mezzo che può realmente realizzarla: la distruzione di tutte le armi, senza le quali le guerre non si possono fare.    

A questo fine la Nuova Scuola Pitagorica propone un raduno a Capo Lacinio, dove Pitagora parlò di pace e vita felice. Al raduno, che si terrà nella primavera del 2025 in data che indicheremo, sono invitati tutti, nessuno escluso.

Intorno al 1990 Padre Paisios, un monaco greco-ortodosso del Monte Atos, disse:

Apò tin Kalavrìa to fos: dalla Calabria verrà la luce.

Quel monaco non mise mai piede in Calabria, ma era probabilmente dotato di quell’intelligenza spirituale, come la definì Gioacchino da Fiore, quell’intelligenza sovrana, capace di illuminare gli abissi della storia per aiutare l’umanità ad allontanarsi dall’inferno presente e andare verso orizzonti di felicità e di pace.

Riaccendere la speranza e adoperarsi per un mondo migliore è il compito essenziale di tutti, soprattutto dei Calabresi, i quali hanno grande bisogno di recuperare la fiducia in sé stessi: gli ultimi saranno i primi.

Evoè, evviva.

 Salvatore Mongiardo

Scolarca della Nuova Scuola Pitagorica

Ottobre 2024

348 7820 212

mongiardosalvatore@gmail.com

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