sabato 10 agosto 2024

'A CUMPRUNTA di E. ARMOGIDA

'A Cumprunta

(brano tratto dalla lirica “C’era ‘na vota\ …’a rota d’o vrascìari”)

 

                                                                                                                                                                                                                                  di Enrico Armogida

 

Cc'era na vota\ 'a "rota" d'o vrasċìari ...

ed ogn'annu - sempa guala! -

fin'a Pasqua duràva...:                                                                                                                 'A dominica 'e Pasqua:

quand'ancòra, ogni tantu,

na cucuḍḍijàta ciciarìgna

'a vigna 'e Tralò e dde Niforìu                                             

'e jancu pinneḍḍàva

e, prima d'a Cumprùnta,                                                                  

supa i casi d'o Castìaḍḍu ntinnàva.

E ll'aggìanti, tutti a ffesta attillàti,                                                                                   l'aggìanti attillati de' mugnani

a mmurràta si ricojjìanu,

e dde' strati o de' mugnàni

guardàvanu a Vvitu Varànu,                                                                                                       Vitu Varanu e ll'angialìadri         

chi, cu i mazzùali ar’i mani,

sonava ‘e prèscia u tambùrru,

e, currìandu davanti

ar’u standàrdu d'o Rosàriu,

nzema all'angialìaḍḍi scarzi

(chi seguìanu cull'ali janchi ampràti

e, sup'a testa,

na curùna 'e curgìajji jhurùti),

portava ar'a Madònna a lluttu

l’annunziu d'o Cristu risurcitàtu

chi a Ggalilèa l’aspettàva.  

 

E a mmenzijùarnu, - quandu                                                                                        

i Cungregànti chi i “vari” portàvanu,

(dùappu l'ùrtimu 'nchinu)

p'o Castìaddru sbiḍḍàvanu -

i fùrgula appicciàvanu u cìalu;                                                                                      

e Ccialamìda u sagrastànu

mani e ppeda i battàjji pistàva, 

er'u campanàru d'a Chjìasi,                                                                                                       

(p'o prìaju d'a festa)

quasi quasi scoppiàva...

 

 

 

'A Cumprunta” a  S. Andrea Apostolo dello Jonio:

frutto di sincretismo religioso fra una remota liturgia pagana

e una più recente tradizione cristiana.

 

Con l'ingresso della primavera, nella ridente collina di S.Andrea sullo Ionio, la prima importante manifestazione di religiosità popolare è quella della tradizionale "Cumprunta" (quella cioè della "gara per l'incontro gioioso" tra la Madonna in lutto e il Figlio risorto), che puntualmente viene disputata ogni anno - tra due gruppi di Confratelli della Congrega del SS. Rosario - a mezzogiorno della Domenica di Pasqua e che - a distanza di 12 ore - segue alla "rappresentazione" della Resurrezione di Cristo, la quale avviene, invece, a mezzanotte del Sabato santo - al momento del “Gloria in excelsis Deo” - durante la solenne Messa “cantata” che il Parroco celebra con la partecipazione di tanta gente.

Tale manifestazione conclude il ciclo dei vari riti liturgici che riempiono la Settimana santa. Tuttavia, prima della Riforma liturgica post-conciliare, - quando la processione del Cristo morto per le strade principali del Paese si faceva una prima volta la sera di Giovedì santo, con una suggestiva fiaccolata di torce e “maravàschji[i] accesi, ed era ripetuta poi una seconda volta la mattina del Venerdì di Passione, con l’accompagnamento della statua della Madre (“addolorata” per l’ultima - e la più atroce - delle spade profetizzate da Simeone) - l'evento della Resurrezione (“‘a Glùaria”) si celebrava il Sabato mattina, durante la Messa "cantata" delle ore 8,00, mentre "'a Cumprùnta" si svolgeva a mezzo-giorno della Domenica di Pasqua, anche se era da tutti e da sempre chiamata “’a cum-prunta ‘e Galilea” - come quella di Soverato - per richiamare alla memoria collettiva l'incontro avvenuto tra la Madonna e il Figlio qualche giorno dopo la sua Resurrezione nella regione settentrionale della Palestina chiamata Galilea.

Il termine “cumpruntàra” si ritrova nel proverbio dialettale ancora in uso: “munti cu munti ‘on si cumprùnta\, ma frunti cu frunti sì”, il quale significa che “gli oggetti inanimati non hanno motivi di discordia, invece gli esseri animati sì, e possono risolverli discutendo insieme”.

Tale vocabolo inizialmente indicava “la volontà e l’atto – che si verifica tra due persone o gruppi di persone - di sedersi insieme di fronte per esternare le proprie rimostranze e ragioni, nella convinzione, anzi certezza, che il confronto delle idee ed il metodo della discussione siano utili a tutti”. Ma successivamente, così come il termine italiano “confronto” - nel mondo sportivo – è venuto a significare “incontro e gara” insieme[ii], il dialettale “cumprùnta” ha assunto anch’esso un valore polisemico, alluden-do sia – chiaramente - all’ “incontro gioioso che avviene (correndo, quasi gareggiando a chi arrivi per primo)”, tra la Madonna (trafitta dal dolore per la recente crocifissione del Figlio) e il Cristo (già risorto, il quale - prima del suo ritorno definitivo alla Casa celeste - rimane ancora sulla terra altri 40 giorni, fino al giorno dell’Ascensione), sia - velatamente - ai vari "dissapori, rivalità o rancori” che per motivi sociali o personali si accendevano spesso tra le famiglie andreolesi e si trasmettevano poi di padre in figlio, in forma quasi ereditaria, anche a livello di Congreghe religiose, che si ritrovano schierate alcune (Rosa-rio e Immacolata) dietro la statua della Madonna, altre (SS.Sacramento e S.Andrea) dietro quella del Cristo[iii].

      Benchè tale manifestazione si svolga in vari altri paesi circonvicini del litorale ionico, “’a Cumprunta” di S.Andrea rimane uno spettacolo unico, tanto per la particolare bellezza della statua del Cristo, (scolpita con taglio michelangiolesco, con lo sguardo fulminante e il braccio destro vittoriosamente proteso in avanti, nell'atteggiamento trionfante e glorioso di chi - col sigillo della Croce, impresso nello stendardo rosso che saldamente impugna nella sinistra - ha vinto da poco il peccato e la morte ed ha redento così il mondo) e la leggiadra imponenza della Madonna del Rosario (rivestita per l’occasione con la veste bianca in broccato d’oro[iv] e con l’abituale manto azzurro stellato), quanto per la trepida apprensione con cui tutti gli astanti partecipano alla "rappresentazione", la quale, (oltre ad esprimere il bisogno di perpetuare una tradizione religiosa molto cara e molto antica), si trasforma per taluni in una piccola occasione di mondanità, in cui primaria preoccu-pazione è quella di trovare la postazione più adatta per assistere nel modo migliore.

     La manifestazione è organizzata dalla Confraternita del SS. Rosario e si svolge nello splendido Corso Umberto I, chiamato abitualmente dalla gente del luogo Pian Castello, una lunga e larga Piazza, acquistata dal Comune verso i primi anni del Novecento e tutta lastricata dagli scalpellini locali in “pietra granitica abilmente spaccata e spianata” (“u basulàtu ‘e petrelli”).

      Essa si apre verso le 11:00 del mattino, immediatamente dopo la conclusione della Santa Messa delle ore 10 ("’a Missa cantata"), quando la statua trionfante del Cristo, e quella della Madonna del Rosario, tutta chiusa ancora in un lungo manto “nero”, escono dalla Chiesa sui loro baldacchini (“i vari”), dirigendosi per zone opposte del paese, la prima verso Sud-Est e l'altra verso Nord-Ovest.

Ad uscire per prima - in forma solenne - è la statua del Cristo, ch’è preceduta dagli uomini che portano gli stendardi e le croci delle Congreghe, dai rispettivi “confratelli”[v] (tutti vestiti di camice bianco e mantellina colorata [“mozzetta”], i quali cantano Salmi ed Inni dell’Ufficio) e dal corpo ecclesiastico (formato dal parroco, da un sacerdote “a latere” e da vari chierichetti), ed è seguita dal complesso musicale e dalla folla dei fedeli riuniti in processione. Ma il percorso seguito dal corteo è diverso da quello di tutte le altre proces-sioni religiose dell’anno, perchè - invece di salire - scende dal Palazzo dei Parise e, attraverso la lunga via Regina Margherita, giunge alla piazzetta della casa del defunto Sesto Bevivino e da lì prosegue verso l'Orfanotrofio delle Suore Riparatrici, per arrivare infine - nel suo punto più basso - al piazzale antistante il sagrato della Chiesa del patrono S.Andrea. Da qui, attraverso via Vittorio Emanuele il corteo sale e, deviando a sinistra verso l’ex-negozio di tessuti dei Carioti, arriva a Piazza Marconi (a Mmalajìra, davanti l’ex Municipio comunale), e poi, procedendo sempre verso l’alto - lungo via Regina Elena – si ferma davanti all’ex-negozio di suola e pellame di Nicola Samà “u briganti”, ove sosta per qualche tempo prima d’imboccare la vicina Piazza per l’incontro finale.

Una decina di minuti dopo esce dalla Chiesa anche la statua della Madonna, che, ancora tutta sconsolata e rivestita a lutto, procede per le strette viuzze del paese in forma privata, sola e disadorna (priva cioè degli abituali gioielli d’oro, quali orecchini e collana), preceduta solo da un ragazzo che porta la croce, da un sacerdote e da pochi fedeli. Essa, immettendosi nell’attuale via Mario Pagano, procede a destra lungo la via arc. Antonio Mongiardo, arriva a Largo Alfonso Cosentino e da lì imbocca la salita del II° tratto di via arc. Ant. Mongiardo, e si ferma alla confluenza con via Trento (davanti alla casa di Peppe Dominijanni “u ciuffu”), in attesa che i 3 “angeletti” (i quali, tutti ricoperti di bianco - camice, ali, corona e calze - seguono di corsa il passo e il rullo sempre più concitato del tamburinaio) portino alla Madonna l’avviso che il Cristo è ormai pronto davanti alla Torre dell’Orologio.

Intanto il Pian Castello, luogo dell’incontro finale, pullula di gente tutta elegantemente vestita a festa: ragazzi e ragazze, bambini[vi] e anziani, emigrati e forestieri si affollano “a mmurràta” nelle case di parenti o conoscenti per assistere alla “Cumprunta”; e, per avere una buona visuale, si sporgono dai balconi e dai "mugnàni" delle case che costeggiano la Piazza; oppure si assiepano lungo i due lati del Corso e tra loro fanno ressa a spintoni, sicchè la Guardia comunale e i Carabinieri del luogo faticano a mantenere l'ordine e a lasciar libera la strada per la "corsa" imminente.

Il momento più emozionante si avvicina con l’avvicinarsi del mezzogiorno: alle ore 11:55, le statue si trovano già alle due estremità della Piazza, situate - il Cristo - all’al-tezza del portone della Chiesa Matrice e - la Madonna – all’imbocco superiore della Piazza; il Parroco e i chierichetti si sistemano verso il centro di essa, là dove si presume debba avvenire l'incontro; e gli stendardi e i confratelli delle Congreghe si pongono ai due lati del Pian Castello, mentre i 3 “angioletti” corrono frettolosamente nei due sensi, lungo la Piazza gremita di folla, e - mediante successivi “messaggi” che con le loro “visite”[vii] recano a ciascuna delle due statue (alla Madre e al Figlio) - favoriscono il loro “incontro”, che diventa alla fine una “celere corsa”, dettata dalla piena dei sentimenti che pulsa all’unisono nel loro cuore.

 Infatti, i reggitori delle statue[viii], i quali un tempo portavano ai piedi solo calze di “àsili[ix] per evitare che durante la corsa scivolassero sulla pavimentazione di “petrèlli” – hanno già posizionato la Madonna e il Cristo in modo tale che i rispettivi “centri d’avanti” – come son chiamati i reggitori centrali – possano comunicare tra loro mediante un opportuno cenno del capo, e coordinare così i tre inchini[x] delle statue, che fanno susseguire a breve distanza di tempo. “Pronti?… Calàmu!”[xi] è il grido scandito ogni volta dal “centro d’avanti” della statua del Rosario, il quale, piegando e rialzando sincronicamente il capo, manda al “centro d’avanti” della statua del Cristo il segnale previsto, e – ad inchino simultaneo effettuato (“calàta”) - fa avvicinare ogni volta la propria statua di due o tre passi avanti.  

A mezzogiorno in punto, quando la Madonna è ormai all'altezza dell'Olmo secolare delle Tre Fontane e il Cristo più o meno a quella dell’ex-farmacia Samà, il centro d’avanti della Madonna, appena riceve il “Pronto!” dalla persona addetta a sfilare il velo “nero” della statua, quasi automaticamente compie l’incurvatura del capo e, fatto in fretta - insieme agli altri compagni - il terzo inchino, scatta in avanti e inizia la “gara” finale verso il centro della Piazza: "‘A Madonna u rèscia!", (cioè "La Madonna provveda al buon esito"), è l'augurio segreto comune, per un percorso che – pur essendo relativamente breve - ai reggitori e agli astanti sembra durare un’eternità, per le difficoltà oggettive che il basolato della piazza presenta e per i gravi imprevisti che il trasporto affrettato delle statue può comportare[xii].

Al punto d'incontro, che risulta all’incirca all’altezza del Tabacchino Lijoi, le due statue si arrestano, con un ultimo inchino frontale si salutano, e poi sono adagiate a terra, affian-cate e rivolte entrambe verso la Chiesa. Contemporaneamente, dal Palazzo Jannoni son librate a volo due bianche colombe, simbolo di quella giornata di pace ed amore che la Festa vuol significare; e, mentre la gente, che ha assistito con apprensione alla scena, piange commossa e batte le mani per l'incontro felicemente avvenuto, il complesso ban-distico intona una marcia trionfale, le campane della Chiesa squillano a distesa e lo scoppio dei fuochi d'artificio dà l'annuzio della conclusione delle festività pasquali.

In questo clima di generale letizia gli addetti della Congrega rimettono alla Madonna gli abituali gioielli, mentre le persone si scambiano (o si rinnovano) gli Auguri di Buona Pasqua con i parenti, amici e conoscenti che incontrano, scattano delle foto o fanno riprese cinematografiche, e pongono la loro generosa offerta nella guantiera della Con-grega, o direttamente attaccano alle fasce di seta celeste delle due statue la moneta cartacea più pesante.

La cerimonia termina col rientro delle statue in Chiesa (anche questa volta prima quella del Cristo e poi quella della Madonna, introdotte col viso rivolto verso l’esterno e accompagnate dalla banda musicale e dai fedeli), e poi col rapido diradamento della gente, che abbandona la Piazza e rientra a casa per assidersi a mensa e consumare nell’intimità della famiglia il tradizionale pranzo pasquale.

 

Certo, la "Cumprunta" è una festa le cui origini nessuno più ricorda né riesce a rintrac-ciare in documenti storici, ma che certamente sono molto remote.

Infatti, prima della statua del Cristo attuale, sappiamo che c'era quella "d'o Cristu “vìacchju"; statua che - secondo l’asserzione del prof. Bruno Voci[xiii] - fu portata a S.An-drea tra il 1848 e il 1868 dall'arciprete Raffaele Spasari, nativo del vicino paese di Bado-lato, e che, caduta in disuso dopo l’acquisto del Cristo “nuovo” (1928), rimase per lungo tempo accantonata nella Chiesetta di S.Rocco e alla fine fu fatta bruciare dal defunto arciprete don Francesco Cosentino (1908-89) nella villetta su cui sorge la Chiesa del patrono S.Andrea.

Ed anche Saverio Mattei, nella II° metà del Settecento, ricorda nella sua Opera che “duravano…a’ giorni suoi – a dispetto di tanti savi provvedimenti de’ Vescovi e de’ Pontefici – alcune teatrali processioni della Passione,…e le feste liete Pasquali, in cui facevan correre le statue qua e là della Vergine, di S.Giovanni, della Maddalena, e di Gesù Cristo, con mille comparse, che destano il riso nella genta culta e la divozione nel popolo rozzo e ignorante[xiv].

Il prof. De Stefano, più che il problema cronologico, si è posto quello della genesi religiosa della Confronta e, dopo aver un po’ affrettatamente asserito che "nei vangeli canonici non troviamo l'incontro di Cristo risorto con la Madre", ha pensato di dare una risposta facendo riferimento al Vangelo apocrifo di Gamaliele, ov'è attestato "il lamento della Madonna presso il sepolcro vuoto del Figlio, che riconosce solo in un secondo momento"[xv].

In realtà, però, la nostra “Cumprunta” non è espressione di lutto per la morte già avvenuta di Gesù, ma manifestazione di gioia per la resurrezione insperata di Cristo, alla quale neppure alcuni discepoli in un primo tempo credettero (v. Mc. 16, 10-13); tant'è vero che "la gara per l’incontro" delle due statue inizia solo dopo che una persona della Congrega sfila dalle spalle della Madonna il manto nero ch'ella ancora porta in segno di dolore e di lutto.

D'altra parte, la nostra "Confronta" fa esplicito riferimento a ben 3 passi del Vangelo di Matteo: per la precisione

      - al cap. 26,32, in cui Gesù, subito dopo la cena serotina di Giovedì santo, predice ai discepoli: "dopo la mia resurrezione, vi precederò in Galilea";

-  al cap. 28,7 in cui l'angelo - alle donne ch'erano andate a visitare il sepolcro la mattina di Domenica - dice:"E' risuscitato dai morti, e ora vi precede in Galilea; là lo vedrete";

-  e al cap. 28,8 in cui Gesù in persona, dopo la sua Resurrezione, appare alle donne e le ricuora, ripetendo la stessa cosa:"Non temete; andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea e là mi vedranno".

Questa funzione liturgica, comunque, - come ha acutamente intuito il nostro caro Sal-vatore Mongiardo - s'innesta – (dilatandone ed elevandone il significato e il valore, come in tanti altri fatti religiosi: vedi le varie basiliche cristiane ricavate da antichi templi pagani o le feste natalizie legate a quelle dei Saturnali romani) - in un remoto mito greco, quello di Demetra e Persefone[xvi] (in latino = Prosèrpina), ed è l'effetto - nel tempo - della cristianizzazione sincretistica di una antichissima vicenda mitologica pagana che si ritrova nell'Inno a Demetra[xvii] (impropriamente attribuito ad Omero), e che certamente era ben conosciuta – e perciò era stata introdotta e poi tramandata anche nelle nostre zone - dai numerosi coloni greci stanziatisi qui nel corso dei secoli.

Tale Inno mira a dare una specie di storia "eziologica" del santuario della città di Eleusi e dei relativi misteri (celebrati in autunno e in primavera, in relazione con la morte e la rinascita del “grano”), ed è incentrato sulla figura della dolente Demetra, "signora delle stagioni e del ricco raccolto" (v. 55 e 492), la quale, "consunta dalla nostalgia della figlia Persefone" (v. 200 e 304), - ["fanciulla fiorente" (v.8) "dalle caviglie sottili" e “dalla vita snella”, che era stata "rapita dal dio Ade" (v. 2)] - e avvolta da un "peplo nero" (182-83), "si lancia come un uccello" a ricercare la figlia "per mare e per terra" (vv. 43-44).

Perciò, Demetra, “l’archetìpica mater dolorosa[xviii], tutta assorbita e chiusa nel suo dolore, abbandona il grande Olimpo, e "la terra non fa più crescere il seme" (v. 306-07) e i raccolti ingialliscono e appassiscono. Allora, Zeus, giustamente preoccupato, dapprima le manda “Iride dalle ali d'oro" (v. 314), ma "non persuade il suo cuore" (v. 324); poi manda a turno “tutti gli dei beati immortali" (v. 325), ma la dea risponde che "non tornerà all'Olimpo fragrante\ e non farà più crescere i frutti della terra\, prima di rivedere con i suoi occhi la bella figlia" (vv. 331-33); alla fine, invia "Ermes, il messagger veloce (¥ggeloj  çkÝj)" (v.407), "perchè convinca Ade con parole cortesi\ a rimandar Persefone dal mondo oscuro" (vv. 336-37). Ade a questo punto acconsente e per due terzi dell’anno restituisce Persefone alla madre, la quale "a quella vista balza come una menade" (v. 385-86), ma per il restante periodo la lascia nel caliginoso mondo sotterraneo come sua consorte e regina degl’Inferi.

Tale mito è ancora adombrato nel nostro termine dialettale "Reserpìna", che tante persone ancora usano per indicare una "donna malvagia, destinata all'inferno"; termine che risulta – a mio parere – dall’ibrida contaminazione popolare di Prosèrpina (che nel senso di “donna cattiva” si usa ancora nel linguaggio parlato a Stalettì) con serpe ed è collegato certo al fatto ch’ella era “regina degl’Inferi”, - nell’arte greca rappresentata spes-so con due serpenti, uno per ciascuna mano (serpenti che dai cristiani furon sempre visti come il simbolo del demonio: v. la statua e il quadro dell’Immacolata!), - ma forse anche al suo fisico "seducente" di "ragazza fiorente (v.8), dalla vita sottile(v.201), che giocava gioiosamente con le Oceanine dall'ampio petto(v.5).

Ma tale mito, oltre che artisticamente avvincente, è molto interessante, perchè ha una stretta connessione col ciclo naturale delle stagioni, in quanto simboleggia il risveglio e ritorno della primavera dopo il letargo dell'inverno, e dà una dimensione nuova ai culti agrari, perchè proietta nell'aldilà - ove regna Persefone - la speranza – (propria di tanti disperati[xix] contadini, in perenne balìa della siccità climatica e delle calamità naturali) - di una vita diversa, beata e imperitura[xx]; e ancor più interessante perché, collegato com’è alla leggenda di un eroe che scende nell’aldilà per rapire la kòre (cioè la fanciulla), “ha a che fare con le idee della morte e della resurrezione, o meglio della salvazione[xxi].

              E il fatto che la rappresentazione si svolga solo qui nel nostro Meridione, nell'antica Magna Grecia, è significativo del fatto che anche noi in gran parte deriviamo dalla stessa  civiltà pagana – quella agricolo-marinara dei Greci -, la quale nel tempo è stata profon-damente cristianizzata (basti pensare all’opera di san Basilio e di Cassiodoro - tanto per ricordare qualche grande nome -, i quali in tale direzione ed in forma indelebile hanno operato nella nostra Calabria).

              Da un punto di vista artistico, la nostra “Confronta” costituisce  un vero “dramma”, che si svolge in un Atto unico e in poche scene significative; scene, certo, non dialogate come nelle “sacre rappresentazioni” del Quattro e Cinquecento, ma simbolicamente e mimeticamente rappresentate, le quali (come le tante pitture sacre che animavano le Chiese del Medioevo) altro non sono che un esplicito ed efficace mezzo mediatico di un particolare messaggio edificante.

              Da un punto di vista culturale, invece, è interessante che in questo “dramma” pagane-simo e cristianesimo s'incontrino e si fondino. Ciò risulta senza ombra di dubbio dal fatto che in entrambe le vicende si ritrovano sostanzialmente 3 personaggi uguali (la madre, il figlio\-a, e l’angelo messaggero), e 3 sentimenti umani basilari, susseguentisi con lo stesso ordine (il dolore straziante di una donna a lutto per la perdita di un familiare, la sua affannosa ricerca in uno stato di profonda afflizione e la gioia finale del ritro-vamento). Sentimenti che, però, nella nostra “Cumprunta” assurgono a qualcosa di più alto, in quanto - impregnati come sono di un sublime valore soprannaturale - vogliono attestare che il Figlio di Dio non è “morto”, ma è vivo e “risorto per noi”, e a confermare - con questo incontro in Galilea – ch’Egli rimane fedele garante di quella promessa di gioiosa speranza che chiude il vangelo di Matteo: “Io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo” (cap. 28,20).

In tal modo appare chiaro anche il senso della storia terrena, la quale non procede né per caso né per salti, ma mostra la sua naturale continuità nella sintesi lenta ma perenne di essere e divenire, di tradizione e innovazione, ed è storia “di sofferenza e di speranza, nella storia di Dio”[xxii], il quale, “umiliandosi nella morte del Crocefisso ed elevando l’uomo nella resurrezione operata in Cristo, crea le condizioni per la comunione con Dio”, e “que-sta assume i tratti di una comunione misericordiosa, incondizionata e universale tra Dio e tutti gli uomini che versano nella comune miseria”[xxiii].

 

NB). Un cordiale ringraziamento, a conclusione, sento di dover rivolgere all’alunna Tiziana Mannello e al cugino Maurizio Lijoi, i quali con la loro generosa disponibilità mi hanno fornito una preziosa mole d’in-formazioni; e un altro all’amico Salvatore Mongiardo, che – con le sue lucide reminiscenze e i suoi repentini sprazzi intuitivi – mi ha offerto lo sprone (anche se mi ha lasciato l’onere!) per la ricerca successiva.

 

 

Bibliografia

 

-    Barbero, Luigi: Civiltà della Grecia antica - Storia letteraria e testi - Mursia - Milano, 1990.

-    Beye, Rowan Charles: Letteratura e pubblico nell’antica Grecia, in “La civiltà greca - Storia e cultura” - Laterza - Bari, 1990 - vol. II.

-    De Stefano, Antonio: Le Confraternite religiose fra passato e presente in S.Andrea dello Jonio” - Ediz. Vivarium - Catanzaro, 2002.

-    Enciclopedia Europea - Garzanti - Milano, 1977 - vol. IV., s.v. Demetra -

-    Inno a Demetra: testo greco e traduzione italiana inPaduano, Guido: Antologia della lette-ratura greca “ - Zanichelli - Bologna, 1990 - vol. I, pp. 298-323.

-    Mattei, Saverio: Del rapporto fra la Chiesa e il Teatro presso i moderni”, in “Opere” - Porcelli - Napoli, 1779 - T. VIII.

-    Moltmann, J.: Il Dio crocifisso - Queriniana - Brescia, 1973.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                           (25-02-2003)

 



12 E’ il verbasco  (o tasso barbasso), un’erba formata da un lungo racemo lanuginoso, che, ben bene seccato al sole e poi impregnato di olio, fungeva da torcia; e poiché, una volta acceso, si consumava molto lenta-mente, durava per tutto l’arco della processione.

13            V. Palazzi-Folena: Dizionario della lingua italiana - Loescher, Torino - 1992 - s.v. confronto

14 Il prof. De Stefano, recentemente, (nella sua tesi di Laurea "Le Confraternite religiose fra passato e pre-sente in S.Andrea dello Jonio” - Ediz. Vivarium - Catanzaro, 2002)  ha cercato di mostrare che la Congrega aveva una particolare funzione di "paciere" tra le “discordie” esistenti nelle varie classi sociali, forse per il fatto che nello Statuto del SS. Sacramento (art. I - r.117) c’è l’esplicita prescrizione che i Congregati “s'inter-pongano  à comporre le discordie, specialmente tra Confratelli”.

                 Ora, io ricordo ancora (perché mio padre fu anche lui – nel periodo della mia infanzia - Priore della Confraternita del Santissimo) la “gara” che si faceva un tempo tra le Congreghe - durante il periodo della Candelora – per la raccolta dell’olio domestico “nuovo”, e - durante le varie Festività – per l’addobbo dei “parati”, per la ricerca dei migliori “predicatùri” e per la ricchezza e bellezza dei “fùachi articiali”, e – durante le processioni religiose – per la raccolta delle “offerte” in denaro; così come ricordo anche la “gioia compiaciuta” di noi ragazzi quando fra i nostri amici potevamo dire con un certo vanto: “Chist’annu vincìu u Cristu” oppure “vincìu ‘a Madonna”, a seconda della Congrega cui ciascuno apparteneva.

                 E so anche che agl’inizi del secolo scorso, nel nostro paese, membri della stessa famiglia, - i quali  per tradizione appartenevano ad una stessa Confraternita -, per  rancori personali son passati volutamente ad una Congrega diversa.

                 Tuttavia, la mia opinione è che non c'erano - come non ci sono - tra i Congregati discordie o dissensi così profondi quali l'autore vuol far credere; ma - soprattutto - che la Congrega non ha mai svolto una funzione "pacificatrice" all'interno della Comunità. Infatti, come dice il “saggio” Orazio in una delle sue Epistole (l. I, X, 24), “la natura, anche se la scacci col forcone, torna sempre indietro”, a significare quasi che ci sono in ciascun individuo atti e contegni insopprimibili, più forti di noi, in quanto a noi connaturati, che necessariamente si riflettevano e si riflettono anche a livello di Congreghe religiose.

D’altra parte, le discordie, se non mancavano, erano un fatto normale, scontato, dovuto alla struttura agricolo-pastorale della passata civiltà e cultura e alle profonde disparità economico-sociali che esistevano fra gli abitanti, e che si ritrovavano non solo nell’ambito delle numerose Congreghe che c'erano (ben 6, come rileva l'autore!), ma anche all'interno delle singole Congreghe (v. - per la festa del Corpus Domini - le 3 processioni del Santissimo, nelle quali l'ombrello e le aste del palio erano riservati prima "ar'i galantòmini", poi "ar'i mastri" e infine "ar'i zzappatùri").

15 Veste confezionata a Napoli nel 1906.         

16 L’ordine di processione delle Congreghe (la cui importanza si può logicamente dedurre dalla maggiore o minore vicinanza ai Sacerdoti) è il seguente: prima quella di S.Andrea, poi quella del SS.Rosario, quindi quella dell’Immacolata e, infine, quella del SS. Sacramento, che precede immediatamente il Parroco e il clero che l’accompagna.

I confratelli indossano un camice bianco cinto di corda e – sulle spalle – portano una "muzzetta",  rispetti-vamente di color rosso bordato di oro, nero bordato di giallo, celeste bordato di bianco, e rosso bordato di bianco.

17 Un tempo i bambini, per assistere alla Confronta, uscivano tenendo in mano la tradizionale "cozzùpa cull’ ùavu", di forma varia (“o panarìaddru opp. cìarvu”).

18  Queste visite erano almeno tre per parte.       

19  I reggitori delle statue sono 12 (6 per ciascuna statua: 4 alle stanghe laterali e 2 nella parte centrale!); e la tradizione vuole che siano tutti “rosarianti”. Comunque, il I° anno di ogni nuova gestione (abitualmente biennale), possono partecipare anche i 4 del Comitato uscente (cioè, il precedente Procuratore come “centro d’avanti” della Madonna; il precedente Priore come “centro d’avanti” del Cristo e i rispettivi Vice come “centri d’arrìadi”). E qualora - per qualche motivo particolare (come, per esempio, quello di dover ot-temperare a un “voto” fatto) - sia accettato come reggitore anche qualche cittadino appartenente a Congre-ga diversa, costui può reggere solo una stanga laterale.                                              

20  àsili o àsali = filato grosso di fibbra di ginestra, ch'era usata per tessuti rustici, sacchi, imbottiture.

21 I tre “inchini” delle statue sono una cosa molto delicata e devono avvenire simultaneamente in entrambe le  squadre. Perciò sono meticolosamente preparati - dai reggitori delle due statue - durante il percorso che fanno per le vie del paese, negli spiazzi che consentono loro di operare tale manovra: quelli del Cristo “provano” in via Regina Margherita (davanti alla casa di Sesto Bevivino e davanti alla Chiesa di S.Andrea) e poi a Piazza Marconi (Malajìra); quelli della Madonna in via Mario Pagano (dietro l’ex negozio di tessuti di Nicola Greco) e in via arc. Antonio Mongiardo (davanti alla casa Dominijanni), prima dell’imbocco per via Trento.

22  Pronti?…Calàmu! = Pronti?…Abbassiàmo!  (facendo l’inchino).

23 E’ successo, infatti, talora che dalle mani di qualcuno dei “reggitori” sfuggisse l’impugnatura della stanga, con grave pericolo per le persone e per la statua, e con grave apprensione della gente, la quale facilmente attribuisce al fatto il carattere di evento foriero di prossime disgrazie.

24  Vedi l’intervista al prof. Bruno Voci in “De Stefano, Antonio:op. cit.,” pg. 168.

25 Mattei, Saverio: “Del rapporto fra la Chiesa e il Teatro presso i moderni”, in “Opere” - Porcelli -  Napoli, 1779 - T. VIII, pgg. 159-60.

26  De Stefano, Antonio: op. cit., pg. 94.

27 Le due dee, più che come persone distinte, appaiono – nel mito e nel culto – come due aspetti di un’unica divinità, ch’è insieme madre e figlia - v. Enciclopedia Europea – Garzanti – Milano, 1977 - vol. IV,  pg. 36 - s.v. Demetra -

28 Inno a Demetra: testo greco e traduzione italiana in “Paduano, Guido: Antologia della letteratura greca “ – Zanichelli – Bologna, 1990 - vol. I, pgg. 298-323.

29 Beye, Rowan Charles: Letteratura e pubblico nell’antica Grecia, in “La civiltà greca – Storia e cultura” – Laterza - Bari, 1990 - vol. II, pg. 110.

30 Il Beye (op. cit., vol. II, pg. 110) osserva giustamente che per i popoli delle odierne civiltà industriali è assai difficile rendersi conto delle angosce connesse con l’agricoltura e con la sopravvivenza umana.

Ma è utile pensare che un tempo le vie di comunicazioni erano rarissime e i mezzi adoperati erano spesso rudimentali e lenti; sicchè le scorte alimentari prodotte localmente non potevano venire integrate dalle importazioni. Inoltre, la refrigerazione non esisteva e perciò gli alimenti coltivati e immagazzinati dovevano durare fino al raccolto successivo. Non c’era altra alternativa, se non la morte per fame. Nulla era allora più fondamentale, eppure nulla era più aleatorio del raccolto annuale; chè la siccità, i freddi precoci, le improv-vise grandinate erano sempre in agguato e potevano significare la repentina estinzione di alcuni membri della comunità o della famiglia.

31   Barbero, Luigi: Civiltà della Grecia antica - Storia letteraria e testi - Mursia - Milano, 1990 - pg. 72.

32   Beye, Rowan Charles: op. cit., vol. II, pg. 112

33   Moltmann, J.: Il Dio crocifisso - Queriniana - Brescia, 1973 - pg. 299.

34   Moltmann, J.: op. cit., pg. 323.

 

 

 

venerdì 9 agosto 2024

IL QUADRIPONTE ETICO E IL PONTE TRA REGGIO E MESSINA

 Il Quadriponte Etico e il Ponte tra Reggio e Messina

 

Correva l’anno 1963 e andavo dalla Casa dello Studente dell’Università verso il porto di Messina, dove frequentavo il terzo anno di giurisprudenza. Mi dirigevo verso il traghetto per tornare dai miei a Sant’Andrea Jonio, in Calabria, quando incontrai Antonio Martino, poi Ministro degli Esteri d’Italia, morto nel 2022. Egli, chiamato Ninì, era figlio del famoso medico Gaetano Martino, Ministro degli Esteri d’Italia, il quale nel 1954 aveva invitato a casa sua a Messina i padri fondatori della Comunità Europea: Jan Willelm Beyen per i Paesi Bassi, Antoine Pinay per la Francia, Joseph Bech per il Lussemburgo, Walter Hallstein per la Repubblica Federale Tedesca  e Paul-Henri Spaak per il Belgio.

Ninì, suo cugino Federico Martino, in seguito Magnifico Rettore dell’Università di Messina, Cesare De Leo, in seguito sindaco di Monasterace, io e pochi altri studenti di giurisprudenza, frequentavamo le lezioni. La maggior parte degli studenti, però, rimaneva nei paesi non potendo affrontare le spese di soggiorno a Messina, dove venivano da Calabria e Sicilia solo per gli esami ed erano molto spesso bocciati.

Ninì mi chiese:

- Dove vai?

- Vado a casa per qualche giorno.

- Perderai il traghetto, la fila per fare il biglietto è lunga.

- No, ho l’abbonamento.

- Bravo, l’anno prossimo però non lo rinnovare, perché sarà costruito il ponte...

Non andò proprio così e oggi, a sessanta anni di distanza, ripenso a quell’episodio non come a un fatterello per ridere, ma come a un invito profetico. Storia alla mano, il movimento di unificazione europea è partito dalla Sicilia nel 1954: non è venuto dalle grandi capitali europee, nate in seguito alle invasioni barbariche, tutte provenienti dal nord e dall’est Europa. In Sicilia, come in tutto il Sud Italia, era in parte sopravvissuto il modello di vita comunitario, nato con l’agricoltura intorno al Diecimila a. C.

Le innumerevoli manifestazioni e prese di posizione odierne pro e contro il Ponte, mi fanno pensare che le difficoltà del vivere di oggi nascono da un dissidio culturale molto profondo, ben documentato per esempio dagli scrittori siciliani come Pirandello, Verga, Capuana, De Roberto e Tomasi di Lampedusa. Nelle loro opere il pessimismo è dominante, non si salva niente e nessuno. Perfino il cane impagliato Bendicò del Gattopardo finisce in un mucchio di cenere. L’animo siciliano rifiuta ogni speranza di cambiamento.

Esattamente il contrario si può dire dell’animo della Calabria, devastata negli ultimi tremila e più anni da una ventina di occupazioni e dominazioni straniere. L’animo calabrese, però, è rimasto fondamentalmente ottimista, tanto che i letterati definiscono utopiche, cioè contengono sogni belli ma irrealizzabili, le opere degli autori calabresi come Cassiodoro, Gioacchino da Fiore, Bernardino Telesio, Tommaso Campanella e altri tra cui me, come scrive il Prof. Antonio Piromalli in La Letteratura Calabrese, vol. 2.   

La profonda diversità d’animo tra Sicilia e Calabria potrebbe derivare dai Fenici, i quali, provenienti da Cartagine in Sicilia fondarono tre colonie: Mabbonath, l'odierna Palermo, Mozia e Solunto. I Fenici praticavano l’olocausto dei loro primogeniti, come testimoniano i vari tofet tra cui quello di Mozia, dove si ponevano le ceneri dei bimbi primogeniti arsi vivi. I Fenici, abili nei commerci e nella navigazione, non erano persone allegre: erano Mediorientali i quali, allora come ora, bramano l’uccisione, l’olocausto e il martirio. In Calabria non ci sono tracce di insediamenti od occupazioni di Fenici.

Gli scrittori calabresi moderni come Alvaro, Repaci, Strati, Seminara sono sostanzialmente fuori dalla linea utopica calabrese. Essi, persone di grande coraggio e onestà, con le loro opere hanno proiettato sulla Calabria l’immagine dell’Aspromonte, che è una piccola parte di Calabria. Hanno così contribuito, anche se involontariamente, a creare un’immagine di tutta la Calabria come di una terra criminale e invivibile.   

Gli studi e le analisi sulle varie letterature trarrebbero grande chiarezza se esaminassero l’antropologia dei popoli tra cui gli scrittori si sono formati. Per esempio, un confronto tra Dante e Gioacchino da Fiore chiarirebbe la diversità antropologica di Calabria e Toscana. Ma è una materia complessa che non possiamo affrontare adesso.

Ora, come Scolarca della Nuova Scuola Pitagorica, quel lontano episodio del Ponte mi ricorda che è necessario costruire un Quadriponte Etico che congiunga Nord, Sud, Est e Ovest della Terra nella felicità e nella pace. Molti diranno che è un’utopia, ma io insisto nell’affermare che più un sogno sembra irrealizzabile, più è destinato a realizzarsi.

A suo tempo esporrò la mia teoria del Destino Emozionale dell’Universo, che spiega come ciò possa avvenire attraverso una visione totalmente nuova dell’evoluzione umana.

                                                                                               

Salvatore Mongiardo

9 agosto 2024