'A Cumprunta
(brano tratto dalla lirica “C’era ‘na vota\ …’a rota d’o vrascìari”)
di Enrico Armogida
…Cc'era
na vota\ 'a "rota" d'o vrasċìari ...
ed
ogn'annu - sempa guala! -
fin'a
Pasqua duràva...: 'A
dominica 'e Pasqua:
quand'ancòra,
ogni tantu,
na
cucuḍḍijàta ciciarìgna
'a
vigna 'e Tralò e dde Niforìu
'e jancu pinneḍḍàva
e,
prima d'a Cumprùnta,
supa
i casi d'o Castìaḍḍu ntinnàva.
E
ll'aggìanti, tutti a ffesta attillàti, l'aggìanti attillati
de' mugnani
a
mmurràta si ricojjìanu,
e
dde' strati o de' mugnàni
guardàvanu
a Vvitu Varànu, Vitu
Varanu e ll'angialìadri
chi,
cu i mazzùali ar’i mani,
sonava
‘e prèscia u tambùrru,
e,
currìandu davanti
ar’u
standàrdu d'o Rosàriu,
nzema
all'angialìaḍḍi scarzi
(chi
seguìanu cull'ali janchi ampràti
e,
sup'a testa,
na
curùna 'e curgìajji jhurùti),
portava
ar'a Madònna a lluttu
l’annunziu
d'o Cristu risurcitàtu
chi
a Ggalilèa l’aspettàva.
E
a mmenzijùarnu, - quandu
i
Cungregànti chi i “vari” portàvanu,
(dùappu
l'ùrtimu 'nchinu)
p'o
Castìaddru sbiḍḍàvanu -
i
fùrgula appicciàvanu u cìalu;
e
Ccialamìda u sagrastànu
mani
e ppeda i battàjji pistàva,
er'u
campanàru d'a Chjìasi,
(p'o
prìaju d'a festa)
quasi
quasi scoppiàva...
“'A Cumprunta” a S. Andrea Apostolo dello Jonio:
frutto di
sincretismo religioso fra una remota
liturgia pagana
e una più recente tradizione cristiana.
Con l'ingresso della
primavera, nella ridente collina di S.Andrea sullo Ionio, la prima importante
manifestazione di religiosità popolare è quella della tradizionale
"Cumprunta" (quella cioè della "gara per l'incontro
gioioso" tra la Madonna in lutto e il Figlio risorto), che puntualmente
viene disputata ogni anno - tra due gruppi di Confratelli della Congrega del
SS. Rosario - a mezzogiorno della Domenica di Pasqua e che - a distanza di 12
ore - segue alla "rappresentazione" della Resurrezione di Cristo, la
quale avviene, invece, a mezzanotte del Sabato santo - al momento del “Gloria in excelsis Deo” - durante la
solenne Messa “cantata” che il Parroco celebra con la partecipazione di tanta
gente.
Tale
manifestazione conclude il ciclo dei vari riti liturgici che riempiono la
Settimana santa. Tuttavia, prima della Riforma liturgica post-conciliare, -
quando la processione del Cristo morto per le strade principali del Paese si
faceva una prima volta la sera di Giovedì santo, con una suggestiva fiaccolata
di torce e “maravàschji”[i]
accesi, ed era ripetuta poi una seconda volta la mattina del Venerdì di
Passione, con l’accompagnamento della statua della Madre (“addolorata”
per l’ultima - e la più atroce - delle spade profetizzate da Simeone) -
l'evento della Resurrezione (“‘a Glùaria”) si celebrava il Sabato
mattina, durante la Messa "cantata" delle ore 8,00, mentre "'a
Cumprùnta" si svolgeva a mezzo-giorno della Domenica di Pasqua, anche
se era da tutti e da sempre chiamata “’a cum-prunta ‘e Galilea” - come quella
di Soverato - per richiamare alla memoria collettiva l'incontro avvenuto tra la
Madonna e il Figlio qualche giorno dopo la sua Resurrezione nella regione settentrionale
della Palestina chiamata Galilea.
Il
termine “cumpruntàra” si ritrova nel proverbio dialettale ancora in uso:
“munti cu munti ‘on si cumprùnta\, ma frunti cu frunti sì”, il quale
significa che “gli oggetti inanimati
non hanno motivi di discordia, invece gli esseri animati sì, e possono
risolverli discutendo insieme”.
Tale
vocabolo inizialmente indicava “la volontà e l’atto – che si verifica tra due
persone o gruppi di persone - di sedersi insieme di fronte per
esternare le proprie rimostranze e ragioni, nella convinzione, anzi certezza,
che il confronto delle idee ed il metodo della discussione siano utili a
tutti”. Ma successivamente, così come il termine italiano “confronto” - nel
mondo sportivo – è venuto a significare “incontro e gara” insieme[ii],
il dialettale “cumprùnta” ha assunto anch’esso un valore polisemico,
alluden-do sia – chiaramente - all’ “incontro gioioso che avviene (correndo,
quasi gareggiando a chi arrivi per primo)”, tra la Madonna (trafitta dal
dolore per la recente crocifissione del Figlio) e il Cristo (già risorto, il
quale - prima del suo ritorno definitivo alla Casa celeste - rimane ancora
sulla terra altri 40 giorni, fino al giorno dell’Ascensione), sia - velatamente
- ai vari "dissapori, rivalità o rancori” che per motivi sociali o
personali si accendevano spesso tra le famiglie andreolesi e si trasmettevano
poi di padre in figlio, in forma quasi ereditaria, anche a livello di Congreghe
religiose, che si ritrovano schierate alcune (Rosa-rio e Immacolata) dietro la
statua della Madonna, altre (SS.Sacramento e S.Andrea) dietro quella del Cristo[iii].
Benchè tale manifestazione si svolga in
vari altri paesi circonvicini del litorale ionico, “’a Cumprunta” di S.Andrea
rimane uno spettacolo unico, tanto per la particolare bellezza della statua del
Cristo, (scolpita con taglio michelangiolesco, con lo sguardo fulminante e il
braccio destro vittoriosamente proteso in avanti, nell'atteggiamento trionfante e glorioso di chi - col sigillo
della Croce, impresso nello stendardo rosso che saldamente impugna nella
sinistra - ha vinto da poco il peccato
e la morte ed ha redento così il mondo) e la leggiadra imponenza della Madonna
del Rosario (rivestita per l’occasione con la veste bianca in broccato d’oro[iv]
e con l’abituale manto azzurro stellato), quanto per la trepida apprensione con
cui tutti gli astanti partecipano alla "rappresentazione", la quale,
(oltre ad esprimere il bisogno di perpetuare una tradizione religiosa molto
cara e molto antica), si trasforma per taluni in una piccola occasione di
mondanità, in cui primaria preoccu-pazione è quella di trovare la postazione
più adatta per assistere nel modo migliore.
La
manifestazione è organizzata dalla Confraternita del SS. Rosario e si svolge
nello splendido Corso Umberto I, chiamato abitualmente dalla gente del luogo
Pian Castello, una lunga e larga Piazza, acquistata dal Comune verso i primi
anni del Novecento e tutta lastricata dagli scalpellini locali in “pietra
granitica abilmente spaccata e spianata” (“u basulàtu ‘e petrelli”).
Essa si apre verso le 11:00 del mattino,
immediatamente dopo la conclusione della Santa Messa delle ore 10 ("’a
Missa cantata"), quando la statua trionfante del Cristo, e quella
della Madonna del Rosario, tutta chiusa ancora in un lungo manto “nero”, escono
dalla Chiesa sui loro baldacchini (“i vari”), dirigendosi per zone
opposte del paese, la prima verso Sud-Est e l'altra verso Nord-Ovest.
Ad
uscire per prima - in forma solenne - è la statua del Cristo, ch’è preceduta
dagli uomini che portano gli stendardi e le croci delle Congreghe, dai
rispettivi “confratelli”[v]
(tutti vestiti di camice bianco e mantellina colorata [“mozzetta”], i quali
cantano Salmi ed Inni dell’Ufficio) e dal corpo ecclesiastico (formato dal
parroco, da un sacerdote “a latere” e da vari chierichetti), ed è seguita dal
complesso musicale e dalla folla dei fedeli riuniti in processione. Ma il
percorso seguito dal corteo è diverso da quello di tutte le altre proces-sioni
religiose dell’anno, perchè - invece di salire - scende dal Palazzo dei
Parise e, attraverso la lunga via Regina Margherita, giunge alla piazzetta
della casa del defunto Sesto Bevivino e da lì prosegue verso l'Orfanotrofio
delle Suore Riparatrici, per arrivare infine - nel suo punto più basso - al
piazzale antistante il sagrato della Chiesa del patrono S.Andrea. Da qui,
attraverso via Vittorio Emanuele il corteo sale e, deviando a sinistra verso
l’ex-negozio di tessuti dei Carioti, arriva a Piazza Marconi (a Mmalajìra,
davanti l’ex Municipio comunale), e poi, procedendo sempre verso l’alto - lungo
via Regina Elena – si ferma davanti all’ex-negozio di suola e pellame di Nicola
Samà “u briganti”, ove sosta per qualche tempo prima d’imboccare la
vicina Piazza per l’incontro finale.
Una
decina di minuti dopo esce dalla Chiesa anche la statua della Madonna, che,
ancora tutta sconsolata e rivestita a lutto, procede per le strette viuzze del
paese in forma privata, sola e disadorna (priva cioè degli abituali gioielli
d’oro, quali orecchini e collana), preceduta solo da un ragazzo che porta la
croce, da un sacerdote e da pochi fedeli. Essa, immettendosi nell’attuale
via Mario Pagano, procede a destra lungo la via arc. Antonio Mongiardo, arriva
a Largo Alfonso Cosentino e da lì imbocca la salita del II° tratto di via arc.
Ant. Mongiardo, e si ferma alla confluenza con via Trento (davanti alla casa di
Peppe Dominijanni “u ciuffu”), in attesa che i 3 “angeletti” (i quali, tutti
ricoperti di bianco - camice, ali, corona e calze - seguono di corsa il passo e
il rullo sempre più concitato del tamburinaio) portino alla Madonna l’avviso
che il Cristo è ormai pronto davanti alla Torre dell’Orologio.
Intanto il Pian Castello,
luogo dell’incontro finale, pullula di gente tutta elegantemente vestita a
festa: ragazzi e ragazze, bambini[vi] e
anziani, emigrati e forestieri si affollano “a mmurràta” nelle case di parenti
o conoscenti per assistere alla “Cumprunta”; e, per avere una buona visuale, si
sporgono dai balconi e dai "mugnàni" delle case che
costeggiano la Piazza; oppure si assiepano lungo i due lati del Corso e tra
loro fanno ressa a spintoni, sicchè la Guardia comunale e i Carabinieri del
luogo faticano a mantenere l'ordine e a lasciar libera la strada per la
"corsa" imminente.
Il momento più emozionante
si avvicina con l’avvicinarsi del mezzogiorno: alle ore 11:55, le statue si
trovano già alle due estremità della Piazza, situate - il Cristo - all’al-tezza
del portone della Chiesa Matrice e - la Madonna – all’imbocco superiore della
Piazza; il Parroco e i chierichetti si sistemano verso il centro di essa, là
dove si presume debba avvenire l'incontro; e gli stendardi e i confratelli
delle Congreghe si pongono ai due lati del Pian Castello, mentre i 3
“angioletti” corrono frettolosamente nei due sensi, lungo la Piazza gremita di
folla, e - mediante successivi “messaggi” che con le loro “visite”[vii]
recano a ciascuna delle due statue (alla Madre e al Figlio) - favoriscono il
loro “incontro”, che diventa alla fine una “celere corsa”, dettata dalla piena
dei sentimenti che pulsa all’unisono nel loro cuore.
Infatti, i reggitori delle statue[viii], i
quali un tempo portavano ai piedi solo calze di “àsili”[ix] per
evitare che durante la corsa scivolassero sulla pavimentazione di “petrèlli”
– hanno già posizionato la Madonna e il Cristo in modo tale che i rispettivi
“centri d’avanti” – come son chiamati i reggitori centrali – possano comunicare
tra loro mediante un opportuno cenno del capo, e coordinare così i tre inchini[x] delle
statue, che fanno susseguire a breve distanza di tempo. “Pronti?… Calàmu!”[xi] è il
grido scandito ogni volta dal “centro d’avanti” della statua del Rosario, il
quale, piegando e rialzando sincronicamente il capo, manda al “centro d’avanti”
della statua del Cristo il segnale previsto, e – ad inchino simultaneo
effettuato (“calàta”) - fa avvicinare ogni volta la propria statua di
due o tre passi avanti.
A mezzogiorno in punto, quando la
Madonna è ormai all'altezza dell'Olmo secolare delle Tre Fontane e il Cristo
più o meno a quella dell’ex-farmacia Samà, il centro d’avanti della Madonna,
appena riceve il “Pronto!” dalla persona addetta a sfilare il velo “nero” della
statua, quasi automaticamente compie l’incurvatura del capo e, fatto in fretta
- insieme agli altri compagni - il terzo inchino, scatta in avanti e inizia la
“gara” finale verso il centro della Piazza: "‘A Madonna u rèscia!",
(cioè "La Madonna provveda al buon esito"), è l'augurio segreto
comune, per un percorso che – pur essendo relativamente breve - ai reggitori e
agli astanti sembra durare un’eternità, per le difficoltà oggettive che il basolato
della piazza presenta e per i gravi imprevisti che il trasporto affrettato
delle statue può comportare[xii].
Al
punto d'incontro, che risulta all’incirca all’altezza del Tabacchino Lijoi, le
due statue si arrestano, con un ultimo inchino frontale si salutano, e poi sono
adagiate a terra, affian-cate e rivolte entrambe verso la Chiesa.
Contemporaneamente, dal Palazzo Jannoni son librate a volo due bianche colombe,
simbolo di quella giornata di pace ed amore che la Festa vuol significare; e,
mentre la gente, che ha assistito con apprensione alla scena, piange commossa e
batte le mani per l'incontro felicemente avvenuto, il complesso ban-distico
intona una marcia trionfale, le campane della Chiesa squillano a distesa e lo
scoppio dei fuochi d'artificio dà l'annuzio della conclusione delle festività
pasquali.
In
questo clima di generale letizia gli addetti della Congrega rimettono alla
Madonna gli abituali gioielli, mentre le persone si scambiano (o si rinnovano)
gli Auguri di Buona Pasqua con i parenti, amici e conoscenti che incontrano,
scattano delle foto o fanno riprese cinematografiche, e pongono la loro
generosa offerta nella guantiera della Con-grega, o direttamente attaccano alle
fasce di seta celeste delle due statue la moneta cartacea più pesante.
La cerimonia termina col
rientro delle statue in Chiesa (anche questa volta prima quella del Cristo e
poi quella della Madonna, introdotte col viso rivolto verso l’esterno e
accompagnate dalla banda musicale e dai fedeli), e poi col rapido diradamento
della gente, che abbandona la Piazza e rientra a casa per assidersi a mensa e
consumare nell’intimità della famiglia il tradizionale pranzo pasquale.
Certo,
la "Cumprunta" è una festa le cui origini nessuno più ricorda né
riesce a rintrac-ciare in documenti storici, ma che certamente sono molto
remote.
Infatti,
prima della statua del Cristo attuale, sappiamo che c'era quella "d'o
Cristu “vìacchju"; statua che - secondo l’asserzione del
prof. Bruno Voci[xiii] -
fu portata a S.An-drea tra il 1848 e il 1868 dall'arciprete Raffaele Spasari,
nativo del vicino paese di Bado-lato, e che, caduta in disuso dopo l’acquisto
del Cristo “nuovo” (1928), rimase per lungo tempo accantonata
nella Chiesetta di S.Rocco e alla fine fu fatta bruciare dal defunto arciprete
don Francesco Cosentino (1908-89) nella villetta su cui sorge la Chiesa del
patrono S.Andrea.
Ed
anche Saverio Mattei, nella II° metà del Settecento, ricorda nella sua
Opera che “duravano…a’ giorni suoi – a dispetto di tanti savi
provvedimenti de’ Vescovi e de’ Pontefici – alcune teatrali processioni della
Passione,…e le feste liete Pasquali, in cui facevan correre le
statue qua e là della Vergine, di S.Giovanni, della Maddalena, e
di Gesù Cristo, con mille comparse, che destano il riso nella genta culta e
la divozione nel popolo rozzo e ignorante”[xiv].
Il
prof. De Stefano, più che il
problema cronologico, si è posto quello della genesi religiosa della Confronta
e, dopo aver un po’ affrettatamente asserito che "nei vangeli canonici
non troviamo l'incontro di Cristo risorto con la Madre", ha pensato di
dare una risposta facendo riferimento al Vangelo apocrifo di Gamaliele,
ov'è attestato "il lamento della Madonna presso il
sepolcro vuoto del Figlio, che riconosce solo in un secondo momento"[xv].
In
realtà, però, la nostra “Cumprunta” non è espressione di
lutto per la morte già avvenuta di Gesù, ma
manifestazione di gioia per la resurrezione insperata di Cristo,
alla quale neppure alcuni discepoli in un primo tempo credettero (v.
Mc. 16, 10-13);
tant'è vero che "la gara per l’incontro" delle due statue inizia solo
dopo che una persona della Congrega sfila dalle spalle della Madonna il
manto nero ch'ella ancora porta in
segno di dolore e di lutto.
D'altra
parte, la nostra "Confronta" fa esplicito
riferimento a ben 3 passi del Vangelo
di Matteo: per la precisione
- al cap. 26,32,
in cui Gesù, subito dopo la cena serotina di Giovedì santo,
predice ai discepoli: "dopo
la mia resurrezione, vi precederò in Galilea";
- al cap. 28,7
in cui l'angelo - alle donne ch'erano andate a visitare il
sepolcro la mattina di Domenica - dice:"E' risuscitato dai morti, e
ora vi precede in Galilea; là lo vedrete";
- e al cap. 28,8 in cui Gesù in persona, dopo la sua
Resurrezione, appare alle donne e le ricuora, ripetendo la stessa cosa:"Non
temete; andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea e
là mi vedranno".
Questa
funzione liturgica, comunque, - come ha acutamente intuito il nostro caro Sal-vatore
Mongiardo - s'innesta – (dilatandone ed elevandone il significato e il
valore, come in tanti altri fatti religiosi: vedi le varie basiliche cristiane
ricavate da antichi templi pagani o le feste natalizie legate a quelle dei
Saturnali romani) - in un remoto mito greco, quello di Demetra e Persefone[xvi]
(in latino = Prosèrpina), ed è l'effetto - nel tempo -
della cristianizzazione sincretistica di una antichissima vicenda mitologica
pagana che si ritrova nell'Inno a
Demetra[xvii]
(impropriamente attribuito ad Omero), e che certamente era ben
conosciuta – e perciò era stata introdotta e poi tramandata anche nelle nostre
zone - dai numerosi coloni greci stanziatisi qui nel corso dei secoli.
Tale
Inno mira a dare una specie di storia "eziologica" del
santuario della città di Eleusi e dei relativi misteri (celebrati in autunno e
in primavera, in relazione con la morte e la rinascita del “grano”), ed
è incentrato sulla figura della dolente Demetra, "signora
delle stagioni e del ricco raccolto" (v. 55 e 492),
la quale, "consunta dalla nostalgia della figlia Persefone"
(v.
200 e 304), - ["fanciulla fiorente"
(v.8)
"dalle caviglie sottili" e “dalla vita snella”, che era
stata "rapita dal dio Ade" (v.
2)] - e avvolta da un "peplo nero" (182-83),
"si lancia come un uccello" a ricercare la figlia "per
mare e per terra" (vv. 43-44).
Perciò,
Demetra, “l’archetìpica mater dolorosa”[xviii],
tutta assorbita e chiusa nel suo dolore, abbandona il grande Olimpo, e "la
terra non fa più crescere il seme" (v. 306-07) e
i raccolti ingialliscono e
appassiscono. Allora, Zeus, giustamente preoccupato, dapprima le manda “Iride
dalle ali d'oro" (v. 314),
ma "non persuade il suo cuore" (v. 324);
poi manda a turno “tutti gli dei beati immortali" (v.
325), ma la dea risponde che "non tornerà all'Olimpo
fragrante\ e non farà più crescere i frutti della terra\, prima di rivedere con
i suoi occhi la bella figlia" (vv. 331-33);
alla fine, invia "Ermes, il
messagger veloce (¥ggeloj çkÝj)"
(v.407),
"perchè convinca Ade con parole cortesi\ a rimandar Persefone dal mondo
oscuro" (vv. 336-37). Ade a questo punto
acconsente e per due terzi dell’anno restituisce Persefone alla madre, la quale
"a quella vista balza come una menade" (v.
385-86), ma per il restante periodo la lascia nel
caliginoso mondo sotterraneo come sua consorte e regina degl’Inferi.
Tale
mito è ancora adombrato nel nostro termine dialettale "Reserpìna",
che tante persone ancora usano per indicare una "donna malvagia, destinata
all'inferno"; termine che risulta – a mio parere – dall’ibrida
contaminazione popolare di Prosèrpina (che nel senso di “donna cattiva”
si usa ancora nel linguaggio parlato a Stalettì) con serpe ed è
collegato certo al fatto ch’ella era “regina degl’Inferi”, - nell’arte greca
rappresentata spes-so con due serpenti, uno per ciascuna mano (serpenti
che dai cristiani furon sempre visti come il simbolo del demonio: v. la
statua e il quadro dell’Immacolata!), - ma forse anche al suo fisico
"seducente" di "ragazza fiorente”
(v.8), “dalla vita
sottile” (v.201), che “giocava
gioiosamente con le Oceanine dall'ampio petto” (v.5).
Ma
tale mito, oltre che artisticamente avvincente, è molto interessante, perchè ha
una stretta connessione col ciclo naturale delle stagioni, in quanto
simboleggia il risveglio e ritorno della primavera dopo il letargo
dell'inverno, e dà una dimensione nuova ai culti agrari, perchè proietta nell'aldilà
- ove regna Persefone - la speranza – (propria di tanti disperati[xix]
contadini, in perenne balìa della siccità climatica e delle calamità naturali)
- di una vita diversa, beata e imperitura[xx];
e ancor più interessante perché, collegato com’è alla leggenda di un eroe
che scende nell’aldilà per rapire la kòre (cioè la fanciulla), “ha a che
fare con le idee della morte e della resurrezione, o meglio della salvazione”[xxi].
E il fatto che la rappresentazione
si svolga solo qui nel nostro Meridione, nell'antica Magna Grecia, è
significativo del fatto che anche noi in gran parte deriviamo dalla stessa civiltà pagana – quella
agricolo-marinara dei Greci -, la quale nel tempo è stata profon-damente
cristianizzata (basti pensare all’opera di san Basilio e di Cassiodoro -
tanto per ricordare qualche grande nome -, i quali in tale direzione ed in
forma indelebile hanno operato nella nostra Calabria).
Da un punto di vista
artistico, la nostra “Confronta” costituisce
un vero “dramma”, che si svolge in un Atto unico e in poche scene
significative; scene, certo, non dialogate come nelle “sacre rappresentazioni”
del Quattro e Cinquecento, ma simbolicamente e mimeticamente rappresentate, le
quali (come le tante pitture sacre che animavano le Chiese del Medioevo) altro
non sono che un esplicito ed efficace mezzo mediatico di un particolare
messaggio edificante.
Da
un punto di vista culturale, invece, è interessante che in questo “dramma” pagane-simo
e cristianesimo s'incontrino e si fondino. Ciò risulta senza ombra di
dubbio dal fatto che in entrambe le vicende si ritrovano sostanzialmente 3
personaggi uguali (la madre, il figlio\-a, e l’angelo messaggero), e 3
sentimenti umani basilari, susseguentisi con lo stesso ordine (il dolore
straziante di una donna a lutto per la perdita di un familiare, la sua
affannosa ricerca in uno stato di profonda afflizione e la gioia finale del
ritro-vamento). Sentimenti che, però, nella nostra “Cumprunta” assurgono a
qualcosa di più alto, in quanto - impregnati come sono di un sublime valore soprannaturale
- vogliono attestare che il Figlio di Dio non è “morto”, ma è vivo e “risorto per
noi”, e a confermare - con questo incontro in Galilea – ch’Egli rimane
fedele garante di quella promessa di gioiosa speranza che chiude il vangelo di
Matteo: “Io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del
mondo” (cap. 28,20).
In tal modo appare chiaro anche il senso della
storia terrena, la quale non procede né per caso né per salti, ma mostra la sua
naturale continuità nella sintesi lenta ma perenne di essere e divenire, di
tradizione e innovazione, ed è storia “di sofferenza e di speranza, nella
storia di Dio”[xxii], il quale, “umiliandosi
nella morte del Crocefisso ed elevando l’uomo nella resurrezione operata in
Cristo, crea le condizioni per la comunione con Dio”, e “que-sta assume i
tratti di una comunione misericordiosa, incondizionata e universale tra Dio e
tutti gli uomini che versano nella comune miseria”[xxiii].
NB).
Un
cordiale ringraziamento, a conclusione, sento di dover rivolgere all’alunna Tiziana
Mannello e al cugino Maurizio Lijoi, i quali con la loro generosa
disponibilità mi hanno fornito una preziosa mole d’in-formazioni; e un altro
all’amico Salvatore Mongiardo, che – con le sue lucide reminiscenze e i
suoi repentini sprazzi intuitivi – mi ha offerto lo sprone (anche se mi ha
lasciato l’onere!) per la ricerca successiva.
Bibliografia
- Barbero,
Luigi: Civiltà della
Grecia antica - Storia letteraria e testi - Mursia - Milano,
1990.
- Beye,
Rowan Charles: Letteratura e pubblico nell’antica Grecia,
in “La civiltà greca - Storia e cultura” - Laterza - Bari, 1990 - vol.
II.
- De Stefano, Antonio: “Le
Confraternite religiose fra passato e presente in S.Andrea dello Jonio” - Ediz. Vivarium - Catanzaro, 2002.
- Enciclopedia
Europea - Garzanti - Milano,
1977 - vol. IV., s.v. Demetra -
- Inno a Demetra: testo greco e
traduzione italiana in
“Paduano, Guido: Antologia della lette-ratura greca
“ - Zanichelli - Bologna, 1990 - vol. I, pp. 298-323.
- Mattei, Saverio: “Del
rapporto fra la Chiesa e il Teatro presso i moderni”, in “Opere” -
Porcelli - Napoli, 1779 - T. VIII.
- Moltmann,
J.: Il Dio crocifisso
- Queriniana - Brescia, 1973.
(25-02-2003)
12 E’
il verbasco (o tasso barbasso),
un’erba formata da un lungo racemo lanuginoso, che, ben bene seccato al sole e
poi impregnato di olio, fungeva da torcia; e poiché, una volta acceso, si
consumava molto lenta-mente, durava per tutto l’arco della processione.
14 Il
prof. De Stefano, recentemente, (nella sua tesi di Laurea "Le Confraternite religiose fra passato e
pre-sente in S.Andrea dello Jonio”
- Ediz. Vivarium - Catanzaro, 2002) ha
cercato di mostrare che la Congrega aveva una particolare funzione di "paciere"
tra le “discordie” esistenti nelle varie classi sociali, forse per il fatto che
nello Statuto del SS. Sacramento (art. I - r.117) c’è l’esplicita prescrizione
che i Congregati “s'inter-pongano à comporre le discordie, specialmente tra
Confratelli”.
Ora, io ricordo ancora (perché
mio padre fu anche lui – nel periodo della mia infanzia - Priore della
Confraternita del Santissimo) la “gara” che si faceva un tempo tra le Congreghe
- durante il periodo della Candelora – per la raccolta dell’olio domestico
“nuovo”, e - durante le varie Festività – per l’addobbo dei “parati”, per la
ricerca dei migliori “predicatùri” e per la ricchezza e bellezza dei “fùachi
articiali”, e – durante le processioni religiose – per la raccolta delle
“offerte” in denaro; così come ricordo anche la “gioia compiaciuta” di noi
ragazzi quando fra i nostri amici potevamo dire con un certo vanto: “Chist’annu
vincìu u Cristu” oppure “vincìu ‘a Madonna”, a seconda della Congrega cui
ciascuno apparteneva.
E so anche che agl’inizi del
secolo scorso, nel nostro paese, membri della stessa famiglia, - i quali per tradizione appartenevano ad una stessa
Confraternita -, per rancori personali
son passati volutamente ad una Congrega diversa.
Tuttavia, la mia opinione è che
non c'erano - come non ci sono - tra i Congregati discordie o dissensi così
profondi quali l'autore vuol far credere; ma - soprattutto - che la Congrega
non ha mai svolto una funzione "pacificatrice" all'interno della
Comunità. Infatti, come dice il “saggio” Orazio in una delle sue Epistole (l.
I, X, 24), “la natura, anche se la scacci col forcone, torna sempre indietro”,
a significare quasi che ci sono in ciascun individuo atti e contegni
insopprimibili, più forti di noi, in quanto a noi connaturati, che
necessariamente si riflettevano e si riflettono anche a livello di Congreghe
religiose.
D’altra
parte, le discordie, se non mancavano, erano un fatto normale, scontato, dovuto
alla struttura agricolo-pastorale della passata civiltà e cultura e alle
profonde disparità economico-sociali che esistevano fra gli abitanti, e che si
ritrovavano non solo nell’ambito delle numerose Congreghe che c'erano (ben 6,
come rileva l'autore!), ma anche all'interno delle singole Congreghe (v. - per
la festa del Corpus Domini - le 3 processioni del
Santissimo, nelle quali l'ombrello e le aste del palio erano riservati prima
"ar'i galantòmini", poi "ar'i mastri" e infine "ar'i
zzappatùri").
16 L’ordine
di processione delle Congreghe (la cui importanza si può logicamente dedurre
dalla maggiore o minore vicinanza ai Sacerdoti) è il seguente: prima quella di
S.Andrea, poi quella del SS.Rosario, quindi quella dell’Immacolata e, infine,
quella del SS. Sacramento, che precede immediatamente il Parroco e il clero che
l’accompagna.
I confratelli indossano un camice bianco
cinto di corda e – sulle spalle – portano una "muzzetta", rispetti-vamente di color rosso bordato di
oro, nero bordato di giallo, celeste bordato di bianco, e rosso bordato di
bianco.
17 Un
tempo i bambini, per assistere alla Confronta, uscivano tenendo in mano la
tradizionale "cozzùpa cull’ ùavu", di forma varia (“o panarìaddru
opp. cìarvu”).
19 I
reggitori delle statue sono 12 (6 per ciascuna statua: 4 alle stanghe laterali
e 2 nella parte centrale!); e la tradizione vuole che siano tutti “rosarianti”.
Comunque, il I° anno di ogni nuova gestione (abitualmente biennale),
possono partecipare anche i 4 del Comitato uscente (cioè, il precedente
Procuratore come “centro d’avanti” della Madonna; il precedente Priore
come “centro d’avanti” del Cristo e i rispettivi Vice come “centri
d’arrìadi”). E qualora - per qualche motivo particolare (come, per esempio,
quello di dover ot-temperare a un “voto” fatto) - sia accettato come reggitore
anche qualche cittadino appartenente a Congre-ga diversa, costui può reggere
solo una stanga laterale.
20 àsili
o àsali = filato grosso di fibbra di ginestra, ch'era usata per tessuti rustici, sacchi,
imbottiture.
21 I
tre “inchini” delle statue sono una cosa molto delicata e devono
avvenire simultaneamente in entrambe le
squadre. Perciò sono meticolosamente preparati - dai reggitori delle due
statue - durante il percorso che fanno per le vie del paese, negli spiazzi che
consentono loro di operare tale manovra: quelli del Cristo “provano” in via
Regina Margherita (davanti alla casa di Sesto Bevivino e davanti alla Chiesa di
S.Andrea) e poi a Piazza Marconi (Malajìra); quelli della Madonna in via Mario
Pagano (dietro l’ex negozio di tessuti di Nicola Greco) e in via arc. Antonio
Mongiardo (davanti alla casa Dominijanni), prima dell’imbocco per via Trento.
23 E’
successo, infatti, talora che dalle mani di qualcuno dei “reggitori” sfuggisse
l’impugnatura della stanga, con grave pericolo per le persone e per la statua,
e con grave apprensione della gente, la quale facilmente attribuisce al fatto
il carattere di evento foriero di prossime disgrazie.
25
Mattei, Saverio: “Del rapporto
fra la Chiesa e il Teatro presso i moderni”, in “Opere” - Porcelli
- Napoli, 1779 - T. VIII, pgg. 159-60.
27 Le
due dee, più che come persone distinte, appaiono – nel mito e nel culto – come
due aspetti di un’unica divinità, ch’è insieme madre e figlia - v. Enciclopedia
Europea – Garzanti – Milano, 1977 - vol. IV, pg. 36 - s.v. Demetra -
28 Inno a Demetra: testo greco e traduzione
italiana in “Paduano, Guido: Antologia della letteratura greca “
– Zanichelli – Bologna, 1990 - vol. I, pgg. 298-323.
29 Beye,
Rowan Charles: Letteratura e pubblico nell’antica Grecia, in “La
civiltà greca – Storia e cultura” – Laterza - Bari, 1990 - vol. II, pg.
110.
30 Il
Beye (op. cit., vol. II, pg. 110) osserva giustamente che per i
popoli delle odierne civiltà industriali è assai difficile rendersi
conto delle angosce connesse con l’agricoltura e con la
sopravvivenza umana.
Ma è utile pensare che un tempo le vie
di comunicazioni erano rarissime e i mezzi adoperati erano spesso rudimentali e
lenti; sicchè le scorte alimentari prodotte localmente non potevano venire
integrate dalle importazioni. Inoltre, la refrigerazione non esisteva e perciò
gli alimenti coltivati e immagazzinati dovevano durare fino al raccolto
successivo. Non c’era altra alternativa, se non la morte per fame. Nulla era
allora più fondamentale, eppure nulla era più aleatorio del raccolto annuale;
chè la siccità, i freddi precoci, le improv-vise grandinate erano sempre in
agguato e potevano significare la repentina estinzione di alcuni membri della
comunità o della famiglia.