Ricordo del cugino Angelo
(Angelo Iorfida,
S. Andrea Jonio 1929 - Canton Ohio 2016)
Di mio cugino Angelo ho scritto nei miei
libri, e ora che è morto voglio ricordarlo per il suo fortissimo attaccamento
al paese natio che sembrava crescere invece di diminuire con gli anni. Angelo
era partito nel dopoguerra con la madre Maria Vittoria per ricongiungersi al
padre Nazareno rimasto in Usa. La sua partenza avvenne nel 1947, quando Angelo
aveva appena conseguito il diploma di maturità classica. Più volte mi ha
raccontato il suo viaggio avventuroso per andare a consultare Padre Pio
sull’opportunità di andare o meno in America. Padre Pio non ebbe dubbi: Moglie e marito devono stare assieme.
Angelo ricordava perfettamente il profumo celestiale di fiori che emanava dal
confessionale del frate.
Il viaggio per l’America riservò loro una
sorpresa perché la nave era stata costruita per i mari caldi e nelle acque
fredde dell’Atlantico le lamiere si restringevano col rischio di allagamento.
Il capitano ricevette ordine di fermarsi e attendere un’altra nave che sarebbe
arrivata in soccorso. In alto mare i passeggeri furono trasbordati ad uno ad
uno con una teleferica.
All’arrivo in America, Angelo si iscrisse
all’università e si impegnò negli studi con successo, ma anche col risultato di
perdere i capelli: era credenza in paese che lettura e studio facevano venire
la calvizie. Angelo era un giovane prestante e molto bello e quella perdita dispiaceva
a sua madre che ci scrisse per procuragli un rimedio ritenuto infallibile. Nella
lettera zia Maria Vittoria chiedeva di spedire… escrementi di topi con la quale
fare ad Angelo degli impacchi sulla testa. Le mie zie avevano un podere vicino
al paese, l’Abbruschiata, sulla
strada di Briga verso il fiume Saluro. In quel podere c’era un ricovero in
muratura abbandonato dove i topi facevano festa lasciando abbondanti
escrementi. Un giorno le zie mi portarono con sé e mi sollevarono -io avevo
forse otto anni- fino a raggiungere un ripiano del ricovero dove gli escrementi
neri erano particolarmente abbondanti. Poi mi mandarono verso la gebbia piena
d’acqua e io vi andai a lavare le mani, anche se avevo paura perché spesso vedevo
u jèlandru, la biscia d’acqua, che
stava sul muretto della gebbia a scaldarsi prima di lanciarsi a prendere
qualche rana.
La cura per i capelli non ebbe effetto, e
su quell’episodio facemmo grandi risate con Angelo quando andai a trovarlo a
Canton. La calvizie comunque non impedì ad Angelo di sposare la bella Mary,
nata in America, figlia di una sorella del prefetto Sandro Voci.
Nei nostri incontri in America il paese di
Sant’Andrea tornava vivo nei racconti di Angelo, quasi dolente, come se il suo distacco
non fosse mai avvenuto. Le persone, i fatti, le famiglie, i racconti erano come
un film infinito dal quale lui non riusciva a staccarsi.
In paese Angelo aveva abitato nel rione
del Ferraro, e vicino a casa sua stava un sempliciotto, u Pacciarìaddhu ’e Mugnulu, il quale nella vita si era scelto un
compito importante. La mattina all’alba si metteva a gridare: Alzatevi, gente, che è giorno! E alla
sera: Coricatevi, gente, che è notte!
Più di una volta Angelo mi descriveva il
panorama che si vedeva dalla sua casa del Ferraro: c’era il viottolo che
scendeva verso il Valloncello, dove tra la folta macchia mediterranea
svettavano tre grandi pini. E vi scorreva un rigagnolo d’acqua dove andavano a
bere i colombi che avevano il nido nel sottotetto della Chiesa Matrice. Poi il
terreno si addolciva verso la marina con le colline di creta coltivate a grano…
e il mare azzurro si stendeva davanti alla costa …
Angelo ricordava quei paesaggi con straordinaria
vivezza e struggente nostalgia. Spero che la visione azzurra del nostro mare
gli sia stata di conforto nella sera della vita.
Salvatore Mongiardo
11 ottobre 2016
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