venerdì 14 novembre 2014

RESURREZIONE DEL DIGAMMA

Resurrezione del Digamma

Quando tornò dall’America nel 1947, nonno Bruno, padre di mia madre e marito di nonna Maria Caterina, aveva settanta anni. Abitava la casa accanto alla nostra e, durante la sua permanenza in America, io avevo dormito con la nonna nel letto grande al suo posto, il lato destro per chi sta coricato: un uso antico rispettato a Sant’Andrea da tutte le coppie.
Io ero l’unico nipote maschio vicino e il nonno mi portava nei suoi vari appezzamenti di campagna, dove si beava di lavorare e mi raccontava…
Un giorno mi portò alla Gattinella, la valle incantata vicina al paese, dove c’era un porcile inutilizzato, a zimba o u zimbili, e mi disse:
            -Vediamo se indovini! Erano in tre, pelo rosso, zappa fossa e piscia in coscia. E se non era per piscia in coscia, pelo rosso si mangiava zappa fossa. Chi sono?
Non ero capace di dipanare la matassa e allora il nonno mi spiegò che pelo rosso era il lupo, zappa fossa il maiale e piscia in coscia il cane. E quindi significava che se il cane non mandava via il lupo, questo avrebbe mangiato il maiale.

Il nonno amava le chiese e le pratiche di pietà e spesso, di pomeriggio, sedeva al balconcino accanto al vaso di begonia, e cantava canzoni sacre. Un pomeriggio si mise a cantare, con bella voce di baritono, la canzone di Sant’Alfonso Maria dei Liguori:

Amai finora il mondo
Sperai da lui la pace
Ma lo trovai fallace,
Malvagio e traditore.
Rovinava un po’ il canto perché stringeva le labbra per non farsi sfuggire la dentiera americana che gli ballava in bocca. Nonna Caterina, che nella cucina di sopra lavava i piatti, si affacciò alla finestra e assentì:
            -Mundu mpamu, disse Caramante!
Difatti, il vicino soprannominato Caramante, veniva citato spesso in paese per questa sua battuta.
Intanto sulla strada passava Caterina di Rosa, alta e solenne, con un fascio d’erba sulla testa e con occhi di colore cobalto così intenso da sembrare una extraterrestre. Assentì all’infamità del mondo annuendo col capo e facendo così dondolare il fascio d’erba che portava. Tirava con una mano la sua capra per la corda e un capretto seguiva la madre che aveva la mammella gonfia di latte. Il capretto cercava di succhiare, ma ne era impedito da una sacca di stoffa, annodata sul dorso della capra, dentro la quale era infilata la mammella. Il capretto era ormai abbastanza grande da mangiare erba: il latte doveva essere venduto per darlo ai bimbi e il capretto stesso sarebbe finito su una tavola da pranzo.

Il nonno mi fece sedere accanto a sé sul balconcino e mi raccontò la storia dell’uccello mercurio.
Na vota era nu ’rre, una volta c’era un re che aveva due figli, uno buono e l’altro cattivo, e doveva decidere a chi dei due lasciare il regno. Li chiamò e disse: Chi di voi mi porterà una penna d’uccello mercurio, sarà mio successore. L’uccello mercurio aveva penne di paradiso, me era difficile trovarle. Il figlio buono fu fortunato e in un posto chiamato Monte Ulivè trovò la penna. Il fratello cattivo allora lo uccise, lo spogliò e lo sotterò, prese la penna e i vestiti bagnati di sangue, tornò dal padre e disse che bestie feroci avevano divorato il fratello. E diede al padre la penna che si vantò di aver trovato. Il padre pianse la perdita del figlio buono e nominò suo successore il figlio cattivo.
Anni dopo un pastorello portò le sue pecore a pascolare a Monte Ulivè e vide spuntare dal terreno una cannuccia di osso. Pensò che fosse di qualche animale, la prese e incise dei buchi per farne uno zufolo. Quando ebbe terminato, cominciò a suonare, ma dallo zufolo uscì una voce che cantava lamentosa:

Suonami, suonami, pecorarello,
Suonami, suonami, pecorare’,
Per una penna d’uccello mercurio
M’hanno ammazzato a Monte Ulivè.

Il pastorello corse in città, suonò lo zufolo in piazza e tutti sentirono lo strano messaggio. Allora fu portato davanti al re che sentì la voce del figlio ucciso e scoprì l’assassinio.
Io inondavo il nonno di domande: perché si dice Monte Ulivè, perché uccello mercurio? …
Il nonno non seppe darmi una spiegazione. Io posso ora tentarne una: Monte Ulivè forse richiama l’Orto degli Ulivi, luogo di passione e morte di Gesù, e mercurio forse il Dio Mercurio, Ermes per i greci, che aveva ali ai piedi essendo messaggero degli Dei…

Un giorno il nonno mi raccontò di un massaro, un fattore di Sant’Andrea che aveva fatto soldi e aspirava ad aver un figlio addottorato in legge. Così mandò il figlio a studiare a Napoli al tempo dei Borboni. Quando il giovane si laureò, tornò in paese e il padre fece una festa con molti invitati e un grande pranzo. Era uso che il dottorato dovesse fare un discorso per dimostrare le sue capacità, ma nonostante i ripetuti inviti, il giovane non aprì bocca. Era ormai sera e gli invitati avevano perso la speranza di sentirlo parlare, così si misero a passeggiare in piazza, quando la luna piena si levò nel cielo. Allora il giovane fece un gesto indicando la luna e disse:
            -Ma questa luna sembra proprio la luna di Napoli!
Gli invitati si misero a ridere, e il padre si disperò: Poveri soldi miei, buttati all’acqua e al vento!
Poco dopo il massaro costruì una casetta di campagna e invitò il figlio ad andare per festeggiare la copertura del tetto. Il giovane avvocato andò e si mise a guardare lungamente le travi di legno del tetto che, trascinate dai buoi nel trasporto, si erano sporcate su una cacca di vacca. Finalmente l’avvocato parlò in latino chiedendo come gli animali erano potuti arrivati sul tetto e sporcare le travi:
            -Quòmodo fecit bobus cacare travas?

Un altro giorno mi raccontò una storia, successa durante la Pigliata, cioè la cattura di Gesù e la rappresentazione della passione. In un paese chiamato Projalìa, che in Calabria non esiste a meno che non sia Parghelia, un giovane fu scelto per fare da Cristo, ma commise un’imprudenza. La sera prima, invece di mangiare leggero, mangiò fave, e lo sforzo di trascinare la croce gli smosse gli intestini. Aveva bisogno di andare al bagno, ma non poteva abbandonare la rappresentazione. Cercò di resistere e si fece anche mettere in croce legato mani e piedi. Ma alla fine proprio non ce la faceva più e disse a gran voce:

Gente di Projalìa, amici cari,
Scindìtimi dalla cruci
Ca mi vogliu cachizzari!

Ma il popolo rispondeva in coro:

Centu carrini pijjàti chi hai
Stringia lu culu e non cacara mai!
Aveva ricevuto come compenso cento carlini e doveva resistere per non rovinare la rappresentazione.

Il povero giovane implorò:

Io vi lu dicu e vi lu dissa mbuci
O mi scinditi o vi cacu la cruci!
E proprio così successe, nello sconcerto generale, con una scarica irrefrenabile.
Alla fine del racconto chiesi al nonno ragione di quella strana parola che non avevo mai sentito prima:
cachizzare. Il nonno insisté che si diceva così perché così gliela avevano raccontata i suoi nonni…
Recentemente ho verificato con Enrico Armogida che il verbo kakizo esiste in greco, ma col significato di incolpare o parlar male di qualcuno. Forse, prima di spegnersi nel Meridione, quella parola greca ha cercato con un guizzo di salvarsi cambiando significato…

Durante l’estate faceva molto caldo e io mi lamentavo: Facia cardu… Il nonno mi riprendeva:
-Non si dice cardu, si carda la lana, ma cà(u)vuddu.
Nonno Bruno usava ancora la misteriosa lettera di greco arcaico chiamata DIGAMMA, pronunciata come una v preceduta da un accenno di u. Il digamma si rappresentava graficamente come una F, ma le grammatiche di greco antico sostengono sia scomparsa ancor prima della redazione dei poemi omerici… Sarà vero per quanto riguarda la Grecia, ma il digamma è sopravvissuto a Sant’Andrea, dove alcuni vecchi lo pronunciavano proprio come nonno Bruno: cà(u)vuddu e come io stesso voglio riprendere a pronunciare.

Un pomeriggio il nonno mi raccontò del Beato Serapione, un santo monaco che nel deserto faceva vita di dura penitenza, tanto che stava per morire di fame. Allora si convinse a cuocere dei fagioli per mangiarli. Ma quando erano quasi cotti, il diavolo per dispetto gli fece la pipì nella pentola e Serapione dovette buttare i fagioli.

Nonno Bruno era uomo che dava soldi a tutti e non richiedeva indietro i prestiti, dicendo che lui era tranquillo e che ognuno se la doveva vedere con la propria coscienza. Nonna Caterina dissentiva:
            -Tu credi ancora che quella persona ha la coscienza?
E sottolineava la generosità esagerata del nonno con il proverbio:
-La troppa carità strappa la bisaccia, a troppa carità scianca a vìartula.
Ovviamente la bisaccia era quella del frate francescano che veniva dal Convento di Santa Maria degli Angeli di Badolato e andava per le vie del paese facendo la questua.

Quando nonno Bruno subì una delusione per motivi di soldi, grossa per l’importo e anche perché consumata nell’ambito della parentela, si comportò allo stesso modo:
            -Se la vedono con la loro coscienza…
 Però l’amaro in bocca gli rimase, tanto che alla fine disse:
            -Non prestare e non donare / Non fare bene ché ricevi male!
Io esclamai sorpreso:
            -Pappù, nonno, questo è solo un proverbio o è veramente così?
Nonno Bruno non rispose, mi venne vicino e carezzò i miei capelli neri che a lui piacevano tanto perché al sole avevano riflessi di blu.

Poi riandò con la memoria a cose del passato e mi raccontò del grande terremoto del 1783. Durante quel sisma terribile, la montagna alle spalle di Sant’Andrea si scosse tanto che le fu dato il nome di Trematerra, ancora in uso nella cartografia. La sommità del monte si aprì e fuoruscirono fango caldo e lapilli.

E mi raccontò anche di Trentacapilli, il capitano borbonico che catturò Gioacchino Murat sbarcato a Pizzo nel tentativo di riconquistare il Regno di Napoli. Mal gliene incolse, perché fu fucilato in base a una legge che Murat stesso aveva emanato contro tentativi borbonici di riconquista:
Giacchinu ficia a leggia e morìu u primu
Gioacchino fece la legge e morì per primo.

14 novembre 2014
Salvatore Mongiardo

Il prof. Lorenzo Viscido mi scrive:

A proposito del verbo "cachizzari", mi permetto di segnalarti che esso e` un composto greco di "kakkao" ( = "defecare"; cfr. Aristofane, Nubes 1384 e 1390) piu` "izo", da cui "kakkizzo" o "kakizo". Tale composto costituisce un intensivo di "kakkao". Su tale uso cfr. A. N. Jannaris, An Historical Greek Grammar, London 1897, p. 301, par. 1095.

domenica 2 novembre 2014

CRISTO DA CROTONE A PAVIA

Cristo da Crotone a Pavia

Il 3 giugno 2014 il giornalista Claudio Micalizio ha condotto la presentazione del mio libro Cristo ritorna da Crotone nella Sala di Santa Maria Gualtieri in Pavia. L' incontro era organizzato dal Centro di Cultura e Partecipazione Civile - Città del Sole di Pavia, e dall'Associazione Calabrolombarda di Milano. Erano presenti le autorità cittadine, Vincenzo Lista e Salvatore Tolomeo. Ha presieduto il prof. Giuseppe Nappi e ha svolto la relazione don Franco Tassone.

Nel 2012 mi ero recato a Pavia per riverire in San Pietro in Ciel d’Oro l’urna di Severino Boezio, posta vicina a quella di Sant’Agostino. Avevo già onorato, nella basilica eretta in suo onore sul sito dell’antica Tagaste in Algeria, il braccio destro di Sant’Agostino, quel braccio che, nelle sue Confessioni, scrisse sul tempo e la memoria le più grandi pagine della letteratura universale. Durante quella visita a Pavia, provai profonda pietà per Boezio al pensiero che dovette affrontare la morte, decisa dal re barbaro Teodorico, consolato unicamente dalla filosofia.

Pavia mi procurò forti emozioni anche durante la presentazione del mio libro, e l’artefice fu don Franco Tassone, che mi definì mistico e illuminato: due qualità nelle quali mi riconosco senza falsa modestia. Fu in quella stessa occasione che, durante il mio intervento, mi venne di dure che se Dio è mamma allora lo Spirito Santo è donna. Un tema che ho chiaro in mente e che confluirà nel mio prossimo libro dal titolo:

EVOE’
LA VITA UNIVERSALE.

L’amico Vincenzo Lista, che organizzò la presentazione di Pavia, mi invita di nuovo a un incontro che si terrà verso fine del 2014, e approfitto ora per affrontare un argomento che si può riassumere così:

Come hanno potuto dodici pescatori ignoranti conquistare il mondo?

Normalmente si risponde a questo interrogativo dicendo che Gesù era figlio di Dio e perciò la sua dottrina era destinata a prevalere. E’ questa una spiegazione teologica, basata cioè su un apparato di definizioni. Se invece guardiamo alla vicenda di Gesù oltre le definizioni, ci rendiamo conto che la sua incarnazione non è stata tanto il nascere in Palestina, cioè nella carne, ma piuttosto una discesa della sua anima nelle culture del suo tempo, una discesa cioè nella storia del mondo.
Ma procediamo con ordine.

Sappiamo dai Vangeli che Gesù e i suoi genitori fuggirono in Egitto per scampare alla strage di Erode. La parte di Egitto più vicina a Israele era ed è Alessandria, la città costruita da Alessandro Magno, abitata all’epoca di Gesù da migliaia di ebrei. Attorno ad Alessandria c’era un insediamento di Terapeuti vicino al Lago Merotis, una comunità che era essenzialmente essena, come scrive Filone d’Alessandria, grande filosofo e dotto ebreo contemporaneo di Gesù.
Tornato in Palestina, a dodici anni Gesù va con i genitori a Gerusalemme e nel Tempio ha una disputa con i dottori della legge. Disputa vuol dire contestazione, non accettazione: dove aveva appreso quel ragazzino una cultura alternativa che gli permetteva di contestare i dottori ebrei? E’ legittimo ipotizzare che ad Alessandria egli abbia appreso la dottrina essena dai Terapeuti o da altri esseni.
Ma ad Alessandria apprese anche, dalla popolazione egizia, il ciclo di Osiride, il Dio che muore e risorge. Gli egizi, durante le feste in suo onore, mangiavano il corpo e bevevano il sangue di Osiride sotto la specie del pane e del vino per poter risorgere come lui alla vita eterna. Tralasciamo per ora la morte e resurrezione, la parte egizia confluita nella dottrina di Gesù, per concentrarci sulla dottrina essena, anch’essa confluita nella dottrina di Gesù che le fuse in un’unica dottrina.

Quando Gesù comincia la sua predicazione, secondo i Vangeli, il suo comportamento e insegnamento sono contrari ai precetti della Bibbia, difatti egli:
1.     -Non rispetta il sabato
2.     -Frequenta i lebbrosi, le prostitute e i pubblicani
3.     -Contesta e irride i sacerdoti del Tempio
4.     -Libera gli animali destinati al sacrificio nel Tempio
5.     -Prende donne al suo seguito
6.   -Celebra la Pasqua un giorno prima di quella del Tempio di      Gerusalemme, come facevano gli esseni e come viene confermato        da Giovanni nel suo Vangelo.
7.   -Si dichiara figlio di Dio, cosa inaudita per la Bibbia che prevede la pena di morte per quella bestemmia.  La condanna a morte di Gesù era nella legalità per il mondo ebraico, anche se ottenuta forzando la mano a Pilato.

In sintesi, Gesù era un antibiblico e, quindi, il voler spiegare la vicenda di Gesù come un osservante della Bibbia è come voler ribaltare tutta la sua vicenda.
Qual era dunque la cultura con la quale Gesù si era formato? Era la cultura che veniva dal Pitagorismo, da Crotone e dall’Italia di allora, per cui si può dire che Gesù era culturalmente italiano. Quest’affermazione deriva dal mio libro che contiene l’analisi dei passaggi della dottrina nata in Italia col Pitagorismo, passata quindi agli esseni e da questi a Gesù. Quello che ora voglio sottolineare è come Pitagora abbia fondato la sua dottrina su elementi italici, quelli cioè che egli aveva trovato nell’Italia del sesto secolo avanti Cristo.

Pitagora venne a Crotone d’Italia, come la chiama Diogene Laerzio, la prima volta da bambino, portato dal padre Mnesarco durante un suo viaggio di lavoro. Egli notò allora che gli Itali vivevano liberi, dividevano il cibo tra di loro nel sissizio, cioè il banchetto comune, ed erano essenzialmente vegetariani. Da adulto Pitagora girò il mondo per decenni, ma quando dovette lasciare la sua patria Samo per sfuggire alla tirannide di Policrate, volle tornare in Italia, dove la popolazione autoctona meglio rispecchiava la sua filosofia. Gli Itali però non sapevano di essere speciali: Pitagora diede loro coscienza della loro peculiarità innalzando a dottrina il loro modo di vivere. Avvenne una fusione tra l’essere, il modello italico, e la coscienza dell’essere, la filosofia pitagorica: nacque così quel grandioso fenomeno, non ancora ben compreso, che si chiamò Magna Grecia.

Questa mia scoperta equivale a quella del Big Bang in astrofisica. Prima del Big Bang, si pensava che ci fosse una sola galassia e che l’universo fosse stabile. Ora sappiamo che di galassie ce n’è un numero sterminato, che l’universo è in continua espansione e che in esso si sono generati stelle, pianeti e sulla Terra anche la vita.

Similmente, la scoperta del Gesù italiano cambia l’asse della storia che non ruota più attorno alla Bibbia come fonte di salvezza. Al contrario, la dottrina pitagorica insegna che il sacrificio di sangue, che la Bibbia predicò e praticò con infinite vittime sgozzate e olocausti, porta alla rovina. Difatti, Pitagora afferma che uccidendo l’animale, la violenza entra nell’uomo creando una cultura che restituisce all’uomo la violenza da lui data all’animale. La storia purtroppo dimostra come Pitagora avesse ragione: il popolo ebraico, che per mille anni ha offerto olocausti mattina e sera nel Tempio, finì lui stesso olocausto ad opera dei nazisti. Da un po’ di tempo, invece di olocausto degli ebrei come si diceva fino a pochi anni fa, si dice Shoà, che in ebraico vuol dire strage: inconsciamente forse si vuole rimuovere quel precedente. In verità la Bibbia aveva creato negli ebrei la convinzione che l’essere vittima sacrificale era segno di predilezione divina, e perciò non lottarono contro il nazismo. Si lasciarono uccidere, proprio come dice la Bibbia (Isaia 53,6-7): Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la bocca come l'agnello condotto al mattatoio.



Pitagora vide che gli Itali offrivano agli Dei il Bue di Pane, che veniva infornato con il primo grano dell’anno, quindi intorno a luglio, in ricordo dell’abbandono dell’alimentazione di carne e dell’avanzare del grano, come testimonia Aristotele. Egli scrive nella Politica che Italo convertì il popolo degli Enotri da allevatori in agricoltori, li chiamò Itali dal suo nome e stabilì il sissizio, il convivio al quale tutti partecipavano portando il cibo che dividevano.
Pitagora capì l’importanza del sissizio e ne fece un sissizio pitagorico che celebrava la sera dopo cena con pane e vino: dello stesso pane un pezzo a tutti e dello stesso vino un sorso a tutti. Il sissizio pitagorico diventò poi sissizio degli esseni, e alla fine ultima cena di Gesù.

I dodici apostoli, senza saperlo, si riallacciavano alla dottrina pitagorica diffusa, per cinque secoli prima di Cristo, da filosofi del calibro di Socrate, Platone, Aristotele, Plotino e poi da una lunga schiera di pitagorici e neopitagorici, comprese molte donne, attivi in tutto il mondo greco-romano. Furono loro che dissodarono il terreno nel quale poi gli apostoli seminarono la loro predicazione. Due esempi per illustrare questa mia affermazione. La libertà degli schiavi, bandiera del cristianesimo, fu inalberata da Pitagora che liberò i suoi due schiavi Astreo e Zalmosside. E Timeo, il legislatore di Locri, allievo di Telàuge figlio di Pitagora, inserì la proibizione della schiavitù nelle Tavole di Locri nel sesto secolo avanti Cristo, norma passata pari pari agli esseni che non tolleravano la schiavitù. Come anche la comunione dei beni, base della vita italica e pitagorica, fu adottata da Gesù e osservata dagli apostoli e dai primi cristiani: primi e ultimi, si può dire, perché senza la comunione dei beni il cristianesimo è svuotato di sostanza e la stessa comunione eucaristica si riduce a una formalità.
Insomma, Gesù non fu un profeta ebraico velleitario, ma un ribelle del sistema ebraico che portava avanti un discorso basato sulla civiltà dell’Italia, convalidata e razionalizzata dalla matematica e dalla filosofia pitagorica.

Per dare un’idea della diffusione del neopitagorismo, la filosofia che riprese il pitagorismo nell’impero di Roma, ricordo solo alcuni capiscuola che ebbero fama e allievi, un’accelerazione vera e propria che spianò la strada al cristianesimo. Basta ricordare i principali rappresentanti del neopitagorismo come Nigidio Figulo (prima metà del sec. I a. C.), Apollonio di Tiana (sec. I d. C.), Moderato di Gades (sec. I d. C.), Nicomaco di Gerasa (sec. II d. C.), Numenio di Apamea (sec. II d. C.). Lo stesso Cicerone, estimatore del pitagorismo e grande amico di Nigidio Figulo, andò a Metaponto a onorare la casa e tomba di Pitagora, come lui stesso scrive.
Inoltre, il più grande tempio dei Pitagorici si trova a Roma, nel sottosuolo di Porta Maggiore, una superba basilica tutta bianca a tre navate, costruita sottoterra forse nel secondo secolo dopo Cristo, chiusa attualmente al pubblico ma esplorabile con internet digitando: basilica neopitagorica Porta Maggiore Roma.

Per concludere questo scritto, che avremo modo di allargare prossimamente con gli amici a Pavia in compagnia di un Bue di Pane, mi sento di dire che la nuova civiltà del mondo, la Civiltà Sissiziale, sarà l’unica possibile alternativa al caos che avvolge sempre di più il nostro pianeta. Questa nuova e grande avventura parte dall’Italia perché questo è il destino dell’Italia: dara al mondo la civiltà. E quando l’Italia va incontro a questo destino, è grande e magnifica. Quando si allontana da questo grandioso compito, è depressa e in ginocchio. Non c’è, comunque, da avere paura perché Gesù l’italiano riprende il suo cammino da Crotone per soccorre l’umanità.



2 novembre 2014
Salvatore Mongiardo