Resurrezione del
Digamma
Quando tornò dall’America nel 1947, nonno
Bruno, padre di mia madre e marito di nonna Maria Caterina, aveva settanta
anni. Abitava la casa accanto alla nostra e, durante la sua permanenza in
America, io avevo dormito con la nonna nel letto grande al suo posto, il lato destro
per chi sta coricato: un uso antico rispettato a Sant’Andrea da tutte le
coppie.
Io ero l’unico nipote maschio vicino e il
nonno mi portava nei suoi vari appezzamenti di campagna, dove si beava di
lavorare e mi raccontava…
Un giorno mi portò alla Gattinella, la
valle incantata vicina al paese, dove c’era un porcile inutilizzato, a zimba o u zimbili, e mi disse:
-Vediamo
se indovini! Erano in tre, pelo rosso, zappa fossa e piscia in coscia. E se non
era per piscia in coscia, pelo rosso si mangiava zappa fossa. Chi sono?
Non ero capace di dipanare la matassa e
allora il nonno mi spiegò che pelo rosso era il lupo, zappa fossa il maiale e
piscia in coscia il cane. E quindi significava che se il cane non mandava via
il lupo, questo avrebbe mangiato il maiale.
Il nonno amava le chiese e le pratiche di
pietà e spesso, di pomeriggio, sedeva al balconcino accanto al vaso di begonia,
e cantava canzoni sacre. Un pomeriggio si mise a cantare, con bella voce di
baritono, la canzone di Sant’Alfonso Maria dei Liguori:
Amai finora il mondo
Sperai da lui la pace
Ma lo trovai fallace,
Malvagio e traditore.
Rovinava un po’ il canto perché stringeva
le labbra per non farsi sfuggire la dentiera americana che gli ballava in bocca.
Nonna Caterina, che nella cucina di sopra lavava i piatti, si affacciò alla
finestra e assentì:
-Mundu
mpamu, disse Caramante!
Difatti, il vicino soprannominato
Caramante, veniva citato spesso in paese per questa sua battuta.
Intanto sulla strada passava Caterina di
Rosa, alta e solenne, con un fascio d’erba sulla testa e con occhi di colore cobalto
così intenso da sembrare una extraterrestre. Assentì all’infamità del mondo
annuendo col capo e facendo così dondolare il fascio d’erba che portava. Tirava
con una mano la sua capra per la corda e un capretto seguiva la madre che aveva
la mammella gonfia di latte. Il capretto cercava di succhiare, ma ne era impedito
da una sacca di stoffa, annodata sul dorso della capra, dentro la quale era
infilata la mammella. Il capretto era ormai abbastanza grande da mangiare erba:
il latte doveva essere venduto per darlo ai bimbi e il capretto stesso sarebbe finito
su una tavola da pranzo.
Il nonno mi fece sedere accanto a sé sul
balconcino e mi raccontò la storia dell’uccello mercurio.
Na
vota era nu ’rre,
una volta c’era un re che aveva due figli, uno buono e l’altro cattivo, e
doveva decidere a chi dei due lasciare il regno. Li chiamò e disse: Chi di voi
mi porterà una penna d’uccello mercurio, sarà mio successore. L’uccello
mercurio aveva penne di paradiso, me era difficile trovarle. Il figlio buono fu
fortunato e in un posto chiamato Monte Ulivè trovò la penna. Il fratello
cattivo allora lo uccise, lo spogliò e lo sotterò, prese la penna e i vestiti
bagnati di sangue, tornò dal padre e disse che bestie feroci avevano divorato
il fratello. E diede al padre la penna che si vantò di aver trovato. Il padre
pianse la perdita del figlio buono e nominò suo successore il figlio cattivo.
Anni dopo un pastorello portò le sue
pecore a pascolare a Monte Ulivè e vide spuntare dal terreno una cannuccia di
osso. Pensò che fosse di qualche animale, la prese e incise dei buchi per farne
uno zufolo. Quando ebbe terminato, cominciò a suonare, ma dallo zufolo uscì una
voce che cantava lamentosa:
Suonami, suonami, pecorarello,
Suonami, suonami, pecorare’,
Per una penna d’uccello mercurio
M’hanno ammazzato a Monte Ulivè.
Il pastorello corse in città, suonò lo
zufolo in piazza e tutti sentirono lo strano messaggio. Allora fu portato
davanti al re che sentì la voce del figlio ucciso e scoprì l’assassinio.
Io inondavo il nonno di domande: perché si
dice Monte Ulivè, perché uccello mercurio? …
Il nonno non seppe darmi una spiegazione.
Io posso ora tentarne una: Monte Ulivè forse richiama l’Orto degli Ulivi, luogo
di passione e morte di Gesù, e mercurio forse il Dio Mercurio, Ermes per i
greci, che aveva ali ai piedi essendo messaggero degli Dei…
Un giorno il nonno mi raccontò di un
massaro, un fattore di Sant’Andrea che aveva fatto soldi e aspirava ad aver un
figlio addottorato in legge. Così mandò il figlio a studiare a Napoli al tempo
dei Borboni. Quando il giovane si laureò, tornò in paese e il padre fece una
festa con molti invitati e un grande pranzo. Era uso che il dottorato dovesse
fare un discorso per dimostrare le sue capacità, ma nonostante i ripetuti
inviti, il giovane non aprì bocca. Era ormai sera e gli invitati avevano perso
la speranza di sentirlo parlare, così si misero a passeggiare in piazza, quando
la luna piena si levò nel cielo. Allora il giovane fece un gesto indicando la
luna e disse:
-Ma
questa luna sembra proprio la luna di Napoli!
Gli invitati si misero a ridere, e il
padre si disperò: Poveri soldi miei, buttati all’acqua e al vento!
Poco dopo il massaro costruì una casetta
di campagna e invitò il figlio ad andare per festeggiare la copertura del
tetto. Il giovane avvocato andò e si mise a guardare lungamente le travi di
legno del tetto che, trascinate dai buoi nel trasporto, si erano sporcate su
una cacca di vacca. Finalmente l’avvocato parlò in latino chiedendo come gli
animali erano potuti arrivati sul tetto e sporcare le travi:
-Quòmodo
fecit bobus cacare travas?
Un altro giorno mi raccontò una storia,
successa durante la Pigliata, cioè la
cattura di Gesù e la rappresentazione della passione. In un paese chiamato
Projalìa, che in Calabria non esiste a meno che non sia Parghelia, un giovane
fu scelto per fare da Cristo, ma commise un’imprudenza. La sera prima, invece
di mangiare leggero, mangiò fave, e lo sforzo di trascinare la croce gli smosse
gli intestini. Aveva bisogno di andare al bagno, ma non poteva abbandonare la
rappresentazione. Cercò di resistere e si fece anche mettere in croce legato
mani e piedi. Ma alla fine proprio non ce la faceva più e disse a gran voce:
Gente di Projalìa, amici cari,
Scindìtimi dalla cruci
Ca mi vogliu cachizzari!
Ma il popolo rispondeva in coro:
Centu carrini pijjàti chi hai
Stringia lu culu e non cacara mai!
Aveva ricevuto come compenso cento carlini
e doveva resistere per non rovinare la rappresentazione.
Il povero giovane implorò:
Io vi lu dicu e vi lu dissa mbuci
O mi scinditi o vi cacu la cruci!
E proprio così successe, nello sconcerto
generale, con una scarica irrefrenabile.
Alla fine del racconto chiesi al nonno ragione
di quella strana parola che non avevo mai sentito prima:
cachizzare. Il nonno insisté
che si diceva così perché così gliela avevano raccontata i suoi nonni…
Recentemente ho verificato con Enrico
Armogida che il verbo kakizo esiste
in greco, ma col significato di incolpare o parlar male di qualcuno. Forse,
prima di spegnersi nel Meridione, quella parola greca ha cercato con un guizzo di
salvarsi cambiando significato…
Durante l’estate faceva molto caldo e io
mi lamentavo: Facia cardu… Il nonno mi riprendeva:
-Non si dice cardu, si carda la lana, ma cà(u)vuddu.
Nonno Bruno usava ancora la misteriosa
lettera di greco arcaico chiamata DIGAMMA, pronunciata come una v
preceduta da un accenno di u. Il digamma si rappresentava
graficamente come una F, ma le
grammatiche di greco antico sostengono sia scomparsa ancor prima della
redazione dei poemi omerici… Sarà vero per quanto riguarda la Grecia, ma il
digamma è sopravvissuto a Sant’Andrea, dove alcuni vecchi lo pronunciavano
proprio come nonno Bruno: cà(u)vuddu e
come io stesso voglio riprendere a pronunciare.
Un pomeriggio il nonno mi raccontò del
Beato Serapione, un santo monaco che nel deserto faceva vita di dura penitenza,
tanto che stava per morire di fame. Allora si convinse a cuocere dei fagioli
per mangiarli. Ma quando erano quasi cotti, il diavolo per dispetto gli fece la
pipì nella pentola e Serapione dovette buttare i fagioli.
Nonno Bruno era uomo che dava soldi a
tutti e non richiedeva indietro i prestiti, dicendo che lui era tranquillo e che
ognuno se la doveva vedere con la propria coscienza. Nonna Caterina dissentiva:
-Tu
credi ancora che quella persona ha la coscienza?
E sottolineava la generosità esagerata del
nonno con il proverbio:
-La troppa carità
strappa la bisaccia, a troppa carità
scianca a vìartula.
Ovviamente la bisaccia era quella del
frate francescano che veniva dal Convento di Santa Maria degli Angeli di
Badolato e andava per le vie del paese facendo la questua.
Quando nonno Bruno subì una delusione per
motivi di soldi, grossa per l’importo e anche perché consumata nell’ambito
della parentela, si comportò allo stesso modo:
-Se
la vedono con la loro coscienza…
Però l’amaro in bocca gli rimase, tanto che alla
fine disse:
-Non
prestare e non donare / Non fare bene ché ricevi male!
Io esclamai sorpreso:
-Pappù, nonno, questo è solo un proverbio
o è veramente così?
Nonno Bruno non rispose, mi venne vicino e
carezzò i miei capelli neri che a lui piacevano tanto perché al sole avevano riflessi
di blu.
Poi riandò con la memoria a cose del
passato e mi raccontò del grande terremoto del 1783. Durante quel sisma
terribile, la montagna alle spalle di Sant’Andrea si scosse tanto che le fu
dato il nome di Trematerra, ancora in uso nella cartografia. La sommità del
monte si aprì e fuoruscirono fango caldo e lapilli.
E mi raccontò anche di Trentacapilli, il capitano
borbonico che catturò Gioacchino Murat sbarcato a Pizzo nel tentativo di riconquistare
il Regno di Napoli. Mal gliene incolse, perché fu fucilato in base a una legge
che Murat stesso aveva emanato contro tentativi borbonici di riconquista:
Giacchinu
ficia a leggia e morìu u primu
Gioacchino fece la legge e morì per primo.
14 novembre 2014
Salvatore Mongiardo
Il prof. Lorenzo Viscido mi scrive:
A proposito del verbo "cachizzari", mi permetto di segnalarti che esso e` un composto greco di "kakkao" ( = "defecare"; cfr. Aristofane, Nubes 1384 e 1390) piu` "izo", da cui "kakkizzo" o "kakizo". Tale composto costituisce un intensivo di "kakkao". Su tale uso cfr. A. N. Jannaris, An Historical Greek Grammar, London 1897, p. 301, par. 1095.