JESI-4 ottobre 2014
STILE DI VITA PITAGORICO
Care Amiche e cari Amici,
Proverò
a tratteggiare il modo di vivere dei Pitagorici non solo nelle sue forme
esteriori, ma anche nelle motivazioni intime del loro comportamento, cercando
di attualizzare ai nostri giorni il modello o stile di vita pitagorico.
In questo esercizio mi atterrò essenzialmente alle tre maggiori fonti classiche.
Pertanto, le parole e frasi in corsivo di questo mio scritto sono citazioni testuali
tratte da:
Porfirio, Vita di Pitagora, Rusconi 1998
Giamblico, La vita pitagorica, BUR 1991
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Laterza 1998.
Pitagora
si alzava prima dell’alba a Crotone per scrutare la volta stellata perché credeva che solo a lui, tra gli esseri
viventi sulla terra i suoni del cosmo risultassero percepibili e comprensibili (Giamblico
66) e difatti sapeva tendere l’orecchio e
fissare la mente alla sublime musica celeste (Giamblico 65). Intanto gli
allievi raggiungevano Pitagora che attendeva il sorgere del sole sul mare: quanto al sole, essi si davano pensiero di
adorarlo nel momento in cui sorgeva (Giamblico 256). Pitagora poi, accordando sulla lira la sua voce e cantando
alcuni antichi peana… danzava al ritmo del canto alcune danze, tutte quelle
cioè che pensava procurassero al corpo agilità e buono stato di salute (Porfirio
32).
Seguiva
l’insegnamento che Pitagora impartiva ai
matematici, quelli che avevano imparato a fondo ed elaborato nei minimi
particolari il discorso scientifico superiore; acusmatici quelli che erano
stati ammessi ad ascoltare i soli insegnamenti essenziali (Porfirio 37). Le passeggiate poi non le faceva né solo né
in compagnia di molti in modo da esporsi all’invidia, ma in due o tre nei
santuari o nei boschi sacri, scegliendo tra i luoghi quelli più tranquilli e
più belli.
Se
passavano davanti a un tempio, i Pitagorici entravano ad adorare gli dèi non come cosa accessoria, ma partendo di casa a questo
scopo (Porfirio 38).
Un acusma,
una delle loro massime, diceva: Non accogliere rondini in casa, cioè non ti
prendere a vivere sotto lo stesso tetto uomini ciarlieri (Porfirio 42).
Il
Maestro non mangiava nessuna creatura e… a
tal punto fuggiva le uccisioni e gli uccisori che non soltanto si asteneva
dagli esseri viventi ma non si avvicinava mai neppure a macellai e cacciatori
(Porfirio 7). E difatti Pitagora proibiva
non solo di uccidere, ma anche di mangiare gli animali che hanno in comune con
noi il privilegio dell’anima… E’ sicuro che egli abbia venerato solo l’altare
di Apollo Genitore in Delo… per il fatto che si deponevano su di esso soltanto
frumento, orzo, focacce senza bisogno di fuoco, e che non vi erano vittime
d’animali, come dice Aristotele nella Costituzione dei Delii (Diogene L. 8,
1, 13).
Gli
animali erano fratelli minori che l’uomo doveva proteggere e difendere al punto
che i Pitagorici escludevano dal loro vestiario anche la lana, che era il
vestito dell’animale al quale non si poteva togliere. Indossavano vesti candide e pure, e usavano ugualmente lenzuola bianche
e pure, che erano di lino, perché non adoperavano pelli (Giamblico, 100). A
fine giornata si recavano al banchetto
comune (Giamblico 98), syssitia
nel testo originale greco, un uso che Pitagora aveva trovato in Italia dove era
stato introdotto da re Italo come base di giustizia sociale distributiva, e che
dall’Italia si era diffuso per tutto il Mediterraneo (Aristotele, Politica,
8,10). Lo stesso termine greco syssitia
è usato da Filone di Alessandria quando scrive del banchetto comune degli
Esseni (Quod omnis probus 86).
Andavano
poi a dormire e, prima del sonno, ciascuno
si cantava questi versi: Non accogliere il sonno nei molli occhi prima di aver
ripercorso tre volte ciascuna delle azioni della giornata: in qual modo ho
sbagliato? Che cosa ho fatto? Qual mio dovere non fu compiuto? Dopo questo minuzioso esame
prendevano sonno e, se avevano dei sogni, al mattino li raccontavano come
episodi di vita reale: così insegnava il Maestro che aveva appreso l’arte dell’interpretazione dei sogni presso gli ebrei
(Porfirio 11).
Diceva
un loro acusma: Scompigliare le coperte
quando ci si alza dal letto, un invito cioè a dimenticare sogni erotici e
sesso (Clemente Alessandrino, Stromata, V, 5). Difatti, il sesso per Pitagora
era un osservato speciale in
quanto ritenuto gran divoratore di energie le quali dovevano essere indirizzate
ad altri scopi. Il sesso licenzioso, come il ventre, era un concorrente
pericoloso che assomigliava ai canti
omicidi delle Sirene (Porfirio 39) Dei piaceri d’amore diceva che sono gravi in ogni stagione e non buoni per
la sanità fisica. Eppure interrogato una volta su quando si debba coire, si
dice che abbia risposto: Quando si vuole essere più deboli di se stessi
(Diogene L. 8, 1, 9). Il sesso era uno degli aspetti della vita umana che è meglio apprendere tardi… Il ragazzo
andrà dunque educato in modo che non ne vada alla ricerca prima dei venti anni;
e quando abbia raggiunto questa età, ne faccia un uso moderato (Giamblico
210).
Solo
di sfuggita ricordo che anche i numeri, dei quali Pitagora fu il grande
razionalizzatore, avevano per i Pitagorici un significato, un rimando, un
senso: così il numero diciassette era mal visto e chiamato ostacolo,
perché cade fra il numero 16 e il numero 18, i soli numeri che formano
figure piane la cui area è uguale al perimetro:
per esempio, un quadrato di 4 metri di lato ha un area di 16 metri quadri e un
perimetro di 16 metri lineari. Lo stesso vale per il 18 (Plutarco, Iside e
Osiride). E’ questa l’origine della diffidenza verso il 17, ancora oggi abbastanza
diffusa.
I
Pitagorici non facevano nulla a caso. A ogni azione davano un senso, cercavano
cioè di destare la coscienza per vincere le ombre dell’esistenza. Aspiravano quindi
a una visione ordinata della realtà e ritenevano vera vita solo quella intrisa
di significato, rifiutando di conseguenza una visione individualistica e
frantumata.
Insomma,
nel Pitagorismo c’era una forte tendenza ad analizzare ed eseguire ogni atto
come il vestire, mangiare o studiare, cercando sempre un perché, una ragione,
una logica, mai seguendo un istinto o un impulso. Questa forte sovrastruttura
costrittiva fu riconosciuta ma rifiutata da un grande coetaneo e quasi
conterraneo di Pitagora, il filosofo Eraclito di Efeso, che non amò Pitagora e sentenziò
che la sapienza del Samio risulta varia
erudizione e brutto artificio (Diogene L. 8,2). Eraclito ricercò, invece,
la ragione di tutte le cose, il logos, vivendo solo e imprecando contro
il mondo intero.
I
Pitagorici affermavano che l’uomo non
deve esser lascito libero di fare ciò che vuole. Deve invece sempre esserci
un’autorità, un potere legale e autorevole, cui i cittadini siano sottoposti,
perché l’essere vivente, una volta lasciato a sé stesso e trascurato, ben
presto cade nella malvagità e nel vizio (Giamblico 203).
Il
modello di Pitagora fu imitato molte volte nella storia e generò varie forme di
vita comunitaria: come, tra gli ebrei, quella degli Esseni che trasmisero a
Cristo la dottrina pitagorica, come ho ricostruito nel mio libro Cristo ritorna da Crotone, libro che porta alla luce le radici
culturali del cristianesimo come derivanti dal pitagorismo. Del resto l’identità tra Pitagorici ed Esseni è confermata nelle
Antichità Giudaiche (XV, X, 4) da Giuseppe Flavio che scrisse:
… noi
chiamiamo Esseni… un gruppo che segue un genere di vita che ai Greci fu
insegnato da Pitagora…
E’ opportuno
quindi chiederci perché mai il modello pitagorico viene rivisitato, rivissuto,
reinterpretato nelle varie fasi storiche fino ad arrivare a noi. La risposta
non può venire solo dalla veste di lino bianco che indossavano né dalla
numerologia nella quale eccellevano né dai rigidi precetti sulla sessualità. La
risposta va cercata piuttosto nei principi ispiratori dello stile di vita
pitagorico il quale, in sintesi, proponeva l’esaudimento dei bisogni
irrinunciabili di ogni persona. Questi principi pitagorici sono
da me sintetizzati in numero di sette.
1. Uguaglianza e libertà
Non soltanto gli uomini ma anche donne hanno la stessa dignità (Porfirio 19): a Crotone fu istituita per lui (Pitagora) una
associazione di donne (Porfirio 18). In quell’epoca, accogliere le donne
come allieve, dare la libertà ai suoi schiavi come Astreo e Zalmosside (Porfirio 13 e 14), come anche liberare dai
tiranni le polis di Crotone, Sibari,
Catania, Reggio, Imera, Agrigento e Tauromenio (Porfirio 21), fu la grande
innovazione di Pitagora. Del resto egli stesso era venuto in Italia vedendo che
a Samo la tirannide di Policrate era
troppo rigida sicché a un uomo libero conveniva non sopportarne l’autorità e la
signoria (Porfirio 9).
2. Comunità di vita e di beni
I
Pitagorici vivevano in comune e consegnavano i loro averi agli economi (Giamblico 72) che
provvedevano a tutti i bisogni materiali. Era abolito tra di loro il danaro o
il possesso esclusivo di cose: misero in
comune i loro beni (Porfirio 20). La comunità si stringeva attorno a chi
era ammalato o moriva: questo sistema vinceva non solo la solitudine in vita e
in morte, ma eliminava anche la paura o l’ansia di non farcela con i propri
mezzi. Vita in comune non voleva dire vivere in maniera sciatta o approssimativa:
i Pitagorici vivevano sì sobriamente, ma in maniera raffinata. Frequente era questo suo precetto: si deve
bandire con ogni mezzo e recidere con il fuoco, il ferro… dal corpo la
malattia, dall’anima l’ignoranza, dal ventre il lusso smodato, dalla città la
discordia, dalla casa il dissenso, ad un tempo da tutte le cose la mancanza di
misura (Porfirio 22).
3. Giustizia
Comunemente,
e correttamente, si dice che la giustizia era il fondamento della vita
pitagorica, ma è una affermazione che va spiegata. Nei testi antichi i termini
sono due: il primo è dikaiosyne
(sostantivo femminile singolare), cioè la rettitudine, il sentimento e la
pratica della giustizia: per Lui il
principio della giustizia risiede nella comunità dei beni, nell’uguaglianza e
in una unione tra gli uomini tale che tutti possano sentire come un corpo e
un’anima sola e chiamare la medesima cosa mia e tua (Giamblico 167). Tale
termine andrebbe più correttamente tradotto con giustezza, la virtù che porta la persona verso il retto
comportamento e verso la distribuzione dei beni. L’altro termine, invece, è dìkaia (aggettivo neutro
plurale, per esempio in Giamblico 174), anch’esso tradotto con giustizia, ma
che indica, invece, diritti e doveri, insomma quanto oggi si tende a chiamare legalità.
Con
l’uso differente dei due termini, il Pitagorismo mette in chiaro che senza
giustezza non ci può essere legalità: per esempio, se la legge non
rispetta la giustizia sociale nella distribuzione dei beni, il debole rimane
oppresso proprio dalla legalità.
4. Vegetarismo
Pitagora
fu il campione del vegetarismo non solo per il rifiuto sistematico di mangiare carne
e pesci, ma soprattutto per il significato che egli dava a tale pratica: Tra le molte ragioni per cui Pitagora
formulò il precetto dell’astensione degli animali c’è anche il fatto che questa
consuetudine favorisce la pace. Infatti, una volta che ci si fosse assuefatti a
odiare come illecita e contro natura la soppressione di animali, si sarebbe
reputato ancor più empio uccidere un uomo e non si sarebbero più fatte guerre (Giamblico 186).
Oggi
la proibizione di mangiar carne è ancora in vigore in alcuni ordini religiosi
come i certosini e i monaci del Monte Athos, che però consumano il pesce.
L’unico ordine religioso che escludeva inizialmente sia carne che pesce, è
quello dei minimi o paolani, fondato in Calabria da San Francesco di Paola,
forse per tradizione orale discendente dal Pitagorismo. I vegetariani e vegani
nel mondo sono oggi stimati in oltre mezzo miliardo, e nella sola Italia sono
ormai sei milioni in continua crescita. Il pitagorico Empedocle scriveva che il
mangiar animali non solo portava l’uomo alla violenza, ma provocava anche
disordine nella sfera sessuale (Empedocle, Poema fisico e lustrale). Giova
ricordare, di sfuggita, che anche Socrate seguiva il regime pitagorico
vegetariano.
5. Non competitività
E’
indubbiamente la dottrina più originale di tutto il pitagorismo, perché vede la
competizione e la vittoria come… male! Per Pitagora gareggiare si poteva, ma
solo come puro divertimento, senza vincitore né vinto: consigliava di lottare ma non di vincere, pensando che occorreva
sopportare le fatiche, ma fuggire l’invidia che viene dal vincere: infatti,
anche sotto altri aspetti capitava che i vincitori, pur coronati, non fossero
integri (Porfirio 15). Insomma, la
vittoria sporca il vincitore perché
lo separa dal vinto e lo fa diventare oggetto d’invidia. Vincere, quindi, come
cercare il successo e coltivare le proprie ambizioni, era cosa indegna di una
persona perbene, che invece doveva sempre cercare l’armonia: esortava tutti a fuggire l’ambizione e il
desiderio di gloria (Porfirio 32).
6. Amicizia
Per
Pitagora l’amicizia era il valore fondante della vita e comprendeva tutti i
viventi, da Dio all’animale. La filìa, che significa amicizia, amore,
benevolenza, tenerezza, abbracciava cittadini e stranieri, marito e moglie,
fratelli, congiunti e animali:
Amicizia
degli dei verso gli uomini, degli uomini l’uno per l’altro, fra i cittadini,
stranieri, dell’uomo per la moglie, i figli, i fratelli, i parenti; amicizia,
insomma, di tutti per tutti, persino verso certi animali, grazie a un sentimento
di giustizia e di naturale unione e solidarietà, amicizia del corpo mortale con
se stesso, pacificazione e conciliazione delle contrastanti forze latenti in
esso… (Giamblico, Vita Pitagorica,
229)… L’amicizia è uguaglianza (Giamblico, 162)… Ma, ancora più degno
di ammirazione, è quanto [i Pitagorici] affermavano circa la comunione dei beni
divini… Sovente si rivolgevano l’un l’altro l’esortazione a non
distruggere l’elemento divino che è in noi stessi. Così, tutta la sollecitudine
per l’amicizia che essi avevano nell’agire e nel parlare mirava in un certo
senso a fondersi e a divenire tutt’uno con la divinità, a entrare in comunione
con la mente e con l’anima divina (Giamblico 240) … Diventare amici dei
propri nemici: (Giamblico 40).
La
mia proposta di FILOCRAZIA, termine da me coniato per indicare il governo dell’amicizia tra i popoli, è
stata lanciata nel giugno 2014.
7. Religiosità
Fortissimo
era il sentimento e la pratica religiosa presso Pitagora e i suoi, che però
onoravano gli dei del proprio paese di origine: Pitagora non cercava la conversione,
concetto a lui estraneo, e le onoranze agli dèi erano amministrate in forma
comunitaria. Nelle fonti e in tutti gli scritti relativi ai Pitagorici non ho
trovato nessuna traccia di una funzione o casta sacerdotale esclusiva.
Se
vogliamo capire l’intima essenza dello stile di vita pitagorico,
possiamo leggerlo in Giamblico (86 e 137):
Tutti i loro [dei Pitagorici] precetti relativi al
fare o non fare una determinata cosa mirano al divino. E questo è il principio
ordinatore dell’intero loro modo di vivere, nonché il senso della filosofia dei
Pitagorici: porsi al seguito della divinità (akolouthein to theò).
E’ legittimo chiedersi
cosa significasse per Pitagora porsi al seguito della divinità o seguire
il Dio: chi era questo Dio e come lo si poteva seguire? La risposta a
questa domanda implica la rivisitazione del fenomeno Magna Grecia che, a
mio modo di vedere, non è stato ancora correttamente compreso. Magna Grecia fu
l’appellativo che i greci diedero a quella terra che all’incirca ora è la
Calabria, con capitale Crotone, unicamente per due motivi:
1. L’altezza
della filosofia di Pitagora: in un’unica lezione, la prima da lui tenuta in
pubblico dopo che da solo arrivò in Italia, seppe avvincere con le sue parole
più di duemila persone. Queste ne furono così prese che non fecero più ritorno
nelle proprie case… e fondarono quella che da tutti fu chiamata Magna Grecia
(Giamblico 30).
2. La
vita irreprensibile dei Pitagorici: presero da Pitagora leggi e prescrizioni
che consideravano precetti divini e non violavano mai (Giamblico 30). In
virtù di queste pratiche di vita accadde che tutta l’Italia si riempì di filosofi;
e mentre prima quella regione non aveva goduto di nessuna considerazione, più
tardi grazie a Pitagora ricevette il nome di Magna Grecia e vi nacquero in gran
numero filosofi, poeti e legislatori (Giamblico 166).
Magna Grecia, quindi, non
ha nulla da vedere con la floridità dei commerci o l’opulenza delle polis come
Sibari o Crotone o Locri, che mai potevano competere con Atene. La Magna Grecia
fu un fenomeno di breve durata, dal 530 al 500 avanti Cristo circa, cioè
dall’arrivo di Pitagora a Crotone fino alla sua cacciata dai congiurati
capeggiati da Cilone. Durante quegli anni avvenne la straordinaria fusione dei
valori italici con la summa filosofica di Pitagora: la proposta
culturale sincretica che ne derivò fu universalmente riconosciuta e apprezzata
per l’elevatezza dei contenuti.
Difatti, il genio di
Pitagora riconobbe nei valori dell’Italia di allora il meglio che si potesse
concepire per una buona vita. Quei valori erano: libertà e uguaglianza,
comunità di vita e dei beni, vegetarismo. Anche l’offerta che Pitagora fece
agli Dei del famoso Bue di Pane, quando scoprì che il quadrato
dell’ipotenusa del triangolo rettangolo è uguale alla somma di quelli dei lati
(Porfirio 36), era già praticato dalle popolazioni italiche, come ho potuto
riscontrare di persona nell’agosto 2014 a Spadola, comune delle Serre
Calabresi, dove ancora si pratica da millenni l’offerta della vacca di pane.
Lo stesso Aristotele
scrive di re Italo che convertì il popolo degli Enotri da allevatori in agricoltori
e primo istituì i sissizi (Aristotele, Politica 7, 10): l’Italia, quindi,
nasceva vegetariana in seguito a un cambiamento alimentare dovuto
all’agricoltura. Insomma, i valori praticati dagli Itali molto prima di
Pitagora, corrispondevano a una esigenza razionale di libertà, giustizia
sociale e non violenza, gli stessi dei Pitagorici.
Indagando più in dettaglio, emerge che al tempo di Pitagora era molto
praticato in Italia il culto di Diòniso o Bacco, lieo o liberatore, come
attesta Erodoto nel secondo libro delle Storie. All’arrivo di Dioniso le donne
abbandonavano famiglia e doveri: casa figli mariti focolare spola e telaio, e
lo seguivano nei boschi al grido di EVOE’ bevendo vino e diventando baccanti.
Durante il rito orgiastico veniva evocato un nuovo ordine sociale che
contemplava anche la liberazione degli schiavi. L’espressione seguire il Dio,
quindi, potrebbe essere nata come una esortazione, rielaborata da Pitagora, a
porsi al seguito del Dio della libertà e della giustizia sociale.
E’ su questa linea che si può spiegare il divieto della schiavitù
scritto, per la prima volta al mondo, nelle Tavole di Locri dal legislatore
Timeo, allievo di Telàuge, figlio di Pitagora:
Ai Locresi non è dato possedere né
schiavi né schiave.
Tutta la vicenda si
capisce meglio ricordando che Pitagora non venne a Crotone, ma ritornò a
Crotone dove era stato giovanissimo portato dal padre Mnesarco in un suo
viaggio (Porfirio 2). Quel lontano episodio della fanciullezza
spiega perché il Maestro, che aveva girato il mondo, volle tornare a quella terra
che lo aveva colpito per la libertà e il sissizio, il banchetto
comunitario al quale tutti partecipavano portando il cibo che dividevano.
L’insegnamento
del più grande pitagorico: Cristo
Anche
se non venne di persona alla Scuola Pitagorica di Crotone, tuttavia ne assorbì
gli insegnamenti e i principi attraverso la comunità degli Esseni, una
minoranza ebraica, della quale Cristo in qualche misura faceva parte. Gli
Esseni si opponevano al sacrificio di sangue del Tempio di Gerusalemme,
celebravano il sissizio ogni sera con pane e vino, erano rigorosamente
vegetariani, proibivano la proprietà privata e il danaro (vedi per ogni
dettaglio: Martin. A. Larson, The Essene-Christian Faith, Noontide Press 1980; Justin
Taylor, Pythagoreans and Essenes Structural Parallels, Peeters 2004).
E’
quanto scrivo nel mio libro Cristo ritorna da Crotone, Gangemi 2013, che
documenta come le radici culturali di Cristo affondano nell’antica Italia e nel
Pitagorismo. Il mio libro rende giustizia a Cristo e alla proposta cristiana,
che non è frutto di un profeta visionario, ma è basata sul rigore dei numeri e
della filosofia pitagorica la quale aveva verificato e assorbito i valori
italici.
L’individuazione
e ricostruzione delle radici culturali di Cristo costituisce, forse, la più
grande novità nel panorama storico, antropologico e religioso dei nostri tempi.
Questa scoperta, anche se riferita al passato, può avere grande impatto sul
futuro. La mia affermazione si basa sulla constatazione che
il
modello attuale di governo del mondo è antipitagorico e quindi matematicamente
sbagliato.
Il modello
pitagorico, invece, basato sui principi già visti, può funzionare perché
abbatte la dispersione di energie creata da competitività, violenza, accumulo eccessivo
di danaro e sesso smodato.
In
conclusione, il modello pitagorico si ripropone oggi in sostituzione di quello attuale,
antipitagorico e incontrollabile, per realizzare una qualità di vita migliore e
un ordine mondiale più stabile.
Salvatore Mongiardo
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