LA MADONNA DELLA
STRADA
Il viandante di una volta e l’automobilista
di oggi che da Sant’Andrea Marina sale verso il centro storico, dopo circa un chilometro
vede alla sua sinistra un’edicola, raffigurante una Madonna con Bambino in
braccio. Su un marmo sotto l’effigie c’è scritto:
MADONNA DELLA
STRADA
GUIDA IL MIO
CAMMINO
A DIVOZIONE DEL
DOTT. GIUSEPPE
D’AMICA
1951
Il dottor D’Amica è stato medico a
Sant’Andrea ed è morto ultranovantenne pochi anni fa, a me ben noto per essere
stato medico della mia famiglia, per la storia che sto per raccontare e per una
reciproca simpatia che ci legava.
Nel 1951 il dottor D’amica si motorizzò,
tra i primi in paese, comprando una macchina con la quale andava
in giro per le visite fuori paese. La Calabria di allora non conosceva ancora
il fenomeno criminale che è dilagato dagli anni Settanta in poi, anche se
vicino alla stazione ferroviaria di San Sostene era successo un fatto orribile.
Un giovane forestiero, che aveva una macchina ed era ben fornito di soldi per
avere venduto delle vacche a una fiera, offrì un passaggio a due sconosciuti
durante una tempesta. I due malviventi lo uccisero, gli rubarono i soldi e la
macchina e buttarono il suo corpo a lato della strada. I familiari vi posero
una lapide, ora rimossa, che implorava:
PORGI O
VIANDANTE UN FIORE UNA PREGHIERA
A LUI CHE GIOVIN
PER BONTA’ FU UCCISO
DA LADRA E IGNOTA
MAN TRA LA BUFERA
Il dottor D’amica, da uomo accorto qual
era, pensò bene di munirsi di una pistola, piccola e piatta, che portava in
tasca e che faceva vedere in modo che si sapesse che andava armato. Ma,
dubitando delle forze umane e da credente qual anche era, pensò di ricorrere
alla potente protezione della Madonna. E così, sotto il titolo di Madonna della Strada, eresse un’icona per
la benedizione della quale molti scesero dal paese assieme all’arciprete don
Andrea Samà, u mbraghatu, il rauco
cioè. C’era ovviamente anche il dottore D’Amica e io, che avevo dieci anni, facevo
da chierichetto. Era probabilmente il maggio 1951.
Al momento della benedizione, ci si
accorse che mancava l’aspersorio per attingere dal secchiello l’acqua
benedetta, e l’arciprete mi disse:
-Prendi un
cespuglietto, pijja ’na strofficeddha…
Strappai da terra una piantina secca e
la porsi all’arciprete che commentò:
-L’hai scelta
bene, a scijjisti bona, questo è
l’issòpo, quello che usavano i sacerdoti ebrei e che noi ricordiamo in chiesa quando
diciamo: Asperges me, Domine, hyssopo et
mundabor….
L’estate seguente, in agosto, avevo
servito all’arciprete la messa domenicale delle 11, celebrata ogni domenica nella
cappella dell’Immacolata della veneranda Chiesa Matrice, demolita nel 1965 per
una vicenda, ancora non abbastanza chiarita, di tangenti e altro. La messa
delle 11 era molto frequentata, con i confratelli che cantavano l’ufficio
dell’Immacolata in latino, una lunghissima predica dell’arciprete che, anche se
rauco, non la smetteva di blaterare contro le donne che osavano mettere il
costume da bagno sulla spiaggia mostrando i corpi seminudi: Carne da macello, carne da macello…
La funzione terminava poi con il canto del
De Profundis, straziante di bellezza e dolore, che Andrea, l’organista cieco,
intonava per le anime dei confratelli defunti. Terminata la funzione, andavamo
in sacrestia dove l’arciprete si toglieva i paramenti sacri. Poi io avevo
l’obbligo, impostomi da mia madre, di accompagnarlo fino a casa:
-Mi raccomando,
cammina tenendolo alla tua destra e poi vieni subito per il pranzo…
Difatti, a quell’ora io boccheggiavo per
la fame, anche perché non avevo mangiato dalla mezzanotte precedente per poter
fare la comunione e dovevo osservare il digiuno eucaristico che allora vigeva.
Una domenica di agosto, mentre stavamo
per uscire dalla sacrestia per andare verso casa, entrò il dottor D’Amica che
salutò complimentoso:
-Arciprete
reverendissimo…
Il dottore, con linguaggio forbito come
sempre, raccontò all’arciprete i tre miracoli che l’icona della Madonna aveva
operato. Il primo consisteva nella piantina secca usata per la benedizione, che
era rifiorita fuori stagione. Il secondo miracolo era avvenuto quando la vacca
del bovaro Volante aveva mangiato molte piante di avena, ajìna, e stava morendo. La moglie del Volante pregò con fervore
quella Madonna e la vacca si alzò e riprese forze. Il terzo miracolo, il più
spettacolare, accadde quando il bovaro soprannominato Ndriello, avanzando di
notte col carro verso il paese, vide sull’icona un grande globo di luce e pensò
che avessero allacciato la corrente elettrica. Il mattino dopo, il globo
luminoso non c’era più e non c’era traccia di rete elettrica.
Il dottore raccontò ripetutamente i tre
miracoli citando nomi e cognomi dei testimoni pronti a confermare tutto davanti
all’arciprete, che ascoltava con sufficienza e senza commenti. Alla fine, come
la Madonna volle, il dottore ci lasciò e ci mettemmo in moto verso casa. Io ero
molto eccitato e non vedevo l’ora di suonare le campane per radunare il popolo,
assistere l’arciprete nell’annuncio dei miracoli, dirlo a mia madre, alle
nonne, ai vicini… Aspettavo istruzioni dall’arciprete che rimaneva in silenzio
e allora osai chiedere:
-Cosa
dobbiamo fare per i tre miracoli?
L’arciprete rimaneva muto e prima di
lasciarlo davanti a casa sua, ripetei la domanda. Allora l’arciprete disse:
-Il dottore
aveva già mangiato e non aveva un c… da fare, on avìa chi cazzu u pìattina!
Alla fine, però, la fiducia che il
dottore D’Amica aveva riposto nella Madonna della Strada fu ripagata con un
miracolo grandissimo e pubblico. Difatti, alla sua morte egli volle che fossero
suonate le campane a festa e che in chiesa si cantasse il Magnificat per
l’esultanza. Il dottore superò così, lucido e sereno, il malo passo della
morte, molto più periglioso delle strade della Calabria.
Salvatore
Mongiardo
18 ottobre 2014
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