Salvatore Mongiardo
Pitagora a Kaulon e Crotone
Atto unico
L’autore
acconsente che questa opera sia diffusa e rappresentata liberamente e
gratuitamente
Nota
Detti, fatti, nomi, situazioni e
contenuti, liberamente adattati dall’autore, sono tratti dai seguenti autori
antichi:
Aristotele, La Politica
Giambico, Vita Pitagorica
Diogene Laerzio, Vite dei
filosofi
Porfirio, Vita di Pitagora
Scena prima
La scena si svolge intorno al 500 a . C. nella scuola di
Pitagora, che aveva sede a Crotone, sul mare, accanto al tempio di Hera
Lacinia. Si intravede il tempio con la colonna dorica superstite. Pitagora è seduto su uno sgabello; davanti a lui ci sono gli allievi, vestiti con tunica
alla greca, accovacciati su coperte piegate, una quindicina tra ragazzi e
ragazze. Pitagora porta la barba a punta e veste alla persiana con ampi
pantaloni bianchi e il turbante bianco in testa.
Gli alunni si esprimono con
l’accento e il modo di parlare della loro città di origine, cosa sulla quale
Pitagora insisteva perché riteneva importante il rispetto della lingua della
propria patria. Nella rappresentazione si usa l’accento attuale di Crotone,
Reggio, Agrigento ecc…
Pitagora interroga un allievo:
-Empèdocles di Agrigento, dimmi, quali numeri compongono
la sacra tètrade?-
Empèdocles si alza e risponde con
chiaro accento siciliano:
-Sono l’1, il 2, il 3 e il 4 che
sommati formano il 10, il numero perfetto che comprende tutto l’esistente, Dio
e l’universo. Dieci o decade infatti significa ricettacolo.
Pitagora:
-Zalèucos della fiorente Locri,
perché il filosofo è l’uomo più puro?
Zalèucos, un altro allievo, con
accento di Locri:
- Perché ha scelto la
contemplazione delle cose più nobili: bello è contemplare l’intera volta
celeste ed è bello riconoscere l’ordine degli astri che si muovono. Ma, o
divino, se ho risposto bene, dimmi, perché dall’isola di Samo, tua patria, sei
venuto a vivere a Crotone? Si dicono tante cose sulla tua venuta, ma nessuno,
eccetto te, lo sa veramente.
Pitagora:
-Io non sono venuto, io sono
tornato a Crotone. La prima volta venni a Crotone da bambino, all'età di 8
anni, quando mio padre Mnesarco mi condusse con sé in nave. Lui era un
bravissimo incisore di pietre preziose. Si montavano come sigilli sugli anelli
ed erano molto richiesti dagli uomini ricchi di Crotone e Sibari. Ricordo la
grande impressione che provai quando sul mare si profilò la costa e brillarono
le tegole di bronzo dorato del tempio di Hera Lacinia: Italia! Italia!
gridarono i marinai.
Gli allievi balzano in piedi e
gridano ripetutamente insieme, accompagnati da fortissimo strepito di piatti e
tamburi: Italia! Italia! Poi si siedono.
Pitagora continua:
-Eravamo giunti a Crotone
d’Italia! Mio padre fece buoni affari vendendo i sigilli e tornammo a Samo, ma,
quando vidi scomparire all’orizzonte le montagne selvose d’Italia, fui molto triste.
Pitagora si rivolge a un’allieva:
-Tirsenìs di Sibari, bando ai
ricordi, parlami ora dell’amicizia.
Tirsenìs:
-Amicizia è benevolenza nei confronti
di tutti, degli dèi verso gli uomini e degli esseri umani tra di loro,
cittadini e stranieri. Dell’uomo per la moglie, per i fratelli, i congiunti e
anche per gli animali. Amicizia anche del corpo con se stesso attraverso la
pacificazione delle forze che contrastano dentro di noi. Ma, o divino, perché
non continui il racconto della tua vita, da quando bambino lasciasti Crotone
fino al tuo ritorno? Noi ardiamo dal desiderio di sapere dove hai viaggiato e
cosa hai visto per il mondo. E’ vero che sei stato fino a Babilonia e che hai
conosciuto Zaratustra?
Pitagora:
-E’ vero. Tornato da Crotone a
Samo, mi accolse mia madre Partènide, la donna più bella dell’isola. Poi, da
giovane, visitai le isole greche e fui iniziato a tutti i misteri. Partii per la Fenicia , soggiornai in Israele,
visitai anche la Siria
e andai poi in Egitto. Lì rimasi per 21 anni e appresi dai sacerdoti la
geometria, l’astronomia e la scrittura dei geroglifici. Oh, che meraviglia la
sfinge misteriosa e le tre grandi piramidi, il Nilo che scorre maestoso
fecondando i campi! Quando poi il re persiano Cambise conquistò l’Egitto, fui
portato con lui a Babilonia. Lì appresi le dottrine dei magi che mi insegnarono
musica e scienza e conobbi Zaratustra, che mi spiegò la sua dottrina del dio
del bene e del dio del male. Rimasi a Babilonia 12 anni, ammirando i giardini
pensili e le folle multicolori che riempivano le strade. Ora tu, Kàlais di
Reggio, dimmi, in poche parole, qual è la nostra dottrina?
Kàlais, un allievo con accento
reggino:
-Occorre estirpare con ogni mezzo
la malattia del corpo, l’ignoranza dell’anima, la smoderatezza del ventre, la secessione
della città, la discordia della casa e l’abuso di qualunque cosa. Tutti i
nostri beni devono essere in comune. Onora l’amico che è come un altro te
stesso. Dobbiamo andare in soccorso della legge ed essere ostili
all’illegalità. Ma, o divino, non ci tenere con il fiato sospeso, continua il
racconto della tua vita!
Pitagora:
-Vi racconterò tutto, ma ora è
tempo di onorare il Dio con la danza e la musica!
Le allieve danzano alla maniera
antica. Entrano in scena suonatori di zampogna, flauto, sistro e lira, e
accompagnano le danze con motivi lenti e dolci.
Alla fine della danza tutti si
siedono e Pitagora continua:
-Quando tornai a Samo avevo 56
anni, e dopo aver tanto viaggiato, mi sentivo straniero in patria. Il tiranno
di Samo, Policrate, mi volle con sé per governare l’isola. Dopo tutti gli
sforzi per apprendere il sapere, mi ritrovai in mezzo alla politica. Quanti
imbrogli, quante menzogne, quanta gente ho visto cambiare opinione per avere un
utile immediato. Tradimenti, inganni, soprusi. Non era quello il mondo che
avevo sognato. Mia madre Partènide mi guardava, vedeva la mia scontentezza e un
giorno mi disse che mi avrebbe seguito dovunque volessi andare. Allora capii
che era giunta l’ora di tornare a Crotone, la città che mi era rimasta sempre
nel cuore. Ci imbarcammo su una nave, ma, nel golfo di Taranto, fummo sorpresi
da una furiosa tempesta. Venne la notte e i venti aumentarono, strapparono le
vele e la nave rimase in balia delle onde: i rematori ritirarono i remi inutili
invocando pietà dagli dèi. Mia madre si strinse a me aspettando la fine e
allora capii, sentendo il suo cuore battere, che nessuna tempesta può vincere
il cuore di una mamma, e la mia anima si aprì alla speranza. Okkelò di Lucania,
dimmi ora, perché la speranza mi salvò nella tempesta?
Okkelò, un’allieva, risponde:
-Perché bisogna sperare in Dio.
Per Dio non ci sono cose possibili e cose impossibili. Tutto Dio può compiere e
non c’è nulla che non possa compiere.
Pitagora:
-Hai detto bene! E Dio, che
pregavo ardentemente, mi fece intravedere, al bagliore di un lampo nella notte,
le tegole dorate del tempio di Hera, che avevo visto brillare da bambino.
Allora gridai: Italia! Italia! I rematori ripresero coraggio e gridarono:
Italia! Italia!
Anche gli allievi balzano e
gridano al suono di piatti e tamburi, ripetutamente: Italia, Italia!
Poi tutti cantano con
accompagnamento di musica:
Italia, Italia, salvezza al
navigante
Italia, Italia, speranza
all'emigrante
Italia, Italia, un sogno di
bellezza.
Italia, Italia, destino di
grandezza.
Scena seconda
Siamo sempre alla scuola di
Pitagora, che passeggia tra gli allievi e poi si siede sullo sgabello. Un
allievo di Kaulon, Kallìmbrotos, gli rivolge la parola:
Kallìmbrotos:
-O divino, nella mia città,
Kaulon, si racconta che, quando io ero bambino, tu sei venuto per rendere
mansueta l’orsa bianca che uccideva gli abitanti. Ti supplico, raccontami come
sono andate le cose!
Pitagora:
-E sia, o Kallìmbrotos! Gli
abitanti di Kaulon mi mandarono messaggeri pregandomi di liberarli da una
feroce orsa bianca che uccideva gli abitanti. Tutti conoscevano la mia pietà
per gli animali: non si può uccidere né mangiare quanto contiene la vita, né
carne né pesce. Come è possibile condurre animali al macello, farli cuocere per
soddisfare il piacere e la ghiottoneria? E’ un terribile misfatto, un crimine
orrendo! Allora mi misi in cammino da Crotone con alcuni amici. Arrivati a
Squillace dovemmo salire sul grande scoglio e ridiscendere per poter
continuare, passammo la Daulia
boscosa e finalmente arrivammo a Kaulon. Di sera l’orsa bianca arrivò, io mi
avvicinai e le parlai a lungo, molto a lungo nell'orecchio. L’orsa capì che io
la volevo aiutare, diventò mansueta e finché visse si recò sulla piazza senza
fare alcun male a nessuno. Era diventata umana.
(Qui si può introdurre una scena di Pitagora che nell'agorà di Kaulon va
incontro all'orsa aggressiva, lui le parla all'orecchio e l’animale si
ammansisce e si accovaccia ai piedi del filosofo)
Pitagora riprende rivolgendosi a Teano,
la bellissima moglie di Pitagora, di 40 anni più giovane di lui, e anche sua
allieva:
-Tu, mia diletta Teano, ripeti,
adesso, perché bisogna rispettare gli animali.
Teano:
-Mio caro sposo, è la dottrina
che più amo e che ho trasmesso ai nostri figli, Telàuge e Muià. Con gli animali
abbiamo in comune la vita. Gli animali sono a noi familiari e amici, non
bisogna far loro alcun male, mai ucciderli e cibarsene, ma considerarli
fratelli minori ed aiutarli. Ho notato che tu stai lontano perfino dai
cacciatori e dai macellai, tanto hai in orrore il sangue!
Pitagora:
-Diletta Teano, quando giunsi a
Crotone ero già sessantenne, filosofo vecchio e deluso. Avevo girato il mondo,
imparato tutti i misteri, ma il mio cuore non era contento. Poi il tuo sguardo
sereno, l’amore sbocciato tra noi, ha portato il caldo nella mia vita. La
filosofia vi aveva portato luce, ma non calore. L’amore di donna è la cosa più
delicata ed elevata dell’universo. Per amore, o Teano, hai capito che l’essenza
della mia dottrina è la fine della violenza: questo avverrà quando non si
uccideranno più gli animali. Se non osi uccidere l’animale, mai oserai uccidere
un uomo e ancor meno fare la guerra!
Tutti gli allievi si alzano e
recitano, scandendo lentamente, alla maniera di un coro greco:
L’amore di donna è nobile e
delicato,
L’amore di donna è il fiore
dell’universo.
Se non uccidi l’animale, non
ucciderai l’uomo:
Sacro è il vivente perché ha in
sé la vita!
Leòkritos, un allievo di
Cartagine, si alza e parla nella sua lingua incomprensibile:
-Gli ma ro ne Italia ta nov ta
torest quat noc ib nafuz obram…
Pitagora lo interrompe:
-Amico Leòkritos, è vero che io
insisto perché ognuno parli nella propria lingua, ma la lingua di Cartagine è
incomprensibile. Per te facciamo un’eccezione, ripeti nella nostra lingua
quello che hai appena detto in cartaginese.
Leòkritos:
-Volevo chiedere se è vero che
questa terra che si chiama Italia prima si chiamava Enotria e che un certo re
Italo le diede il nome e fondò i sissizi…
Pitagora si rivolge a un allievo,
Ippòstratos:
-Ippòstratos di Crotone d’Italia,
rispondi tu alla domanda del nostro amico di Cartagine!
Ippòstratos:
-Questa terra prima si chiamava
Enotria finché re Italo convertì quel popolo dalla pastorizia all'agricoltura e
diede il suo nome agli abitanti che si chiamarono Itali e la terra si chiamò
Italia. Italo stabilì che la base della civiltà era l’amicizia, perché solo nello
spirito di amicizia si può vivere bene. Per favorire l’amicizia egli fondò il
sissizio, il banchetto comune, dove ognuno portava il cibo che divideva con gli
altri.
Pitagora:
-E sarebbe il caso che tutti
ripetessero il rito nobile del sissizio! Adesso, o Archìtas di Taranto, tu che
sei il più acuto nella geometria, spiega quali sono le proprietà di un
triangolo rettangolo.
Archita, un allievo:
-Il quadrato costruito
sull'ipotenusa di qualunque triangolo rettangolo è sempre uguale alla somma dei
due quadrati costruiti sui cateti! Non riesco, o divino, a capire come tu abbia
scoperto una legge così importante!
Pitagora:
-Sappi, o Archita, che il teorema
del triangolo rettangolo è solo la parte dimostrativa di una legge più
importante che è la seguente: se uccidi l’animale, la violenza entrerà
nell'uomo e restituirà all'uomo la violenza data all'animale. Questo sarà
sempre vero come sempre sarà vero il teorema del triangolo rettangolo! Non
dimenticatelo mai!
Si alza un altro allievo,
Parmìskos, che chiede:
-O divino, ieri sera ho offerto
una corona di fiori per mio padre che è morto. Questa notte mi è venuto in
sogno e mi ha parlato! Mi ha abbracciato tutto contento! Mi ha anche detto di
non preoccuparmi di niente… Mi sono svegliato tutto agitato e felice, era così
viva la sua immagine, così chiara la sua voce! Dimmi, che significato ha quel
sogno?
Pitagora.
-Caro Parmìskos di Metaponto, non
è un significato, è una realtà. Tu hai parlato a tuo padre esattamente come ora
stai parlando a me. La realtà è vasta ed abbraccia le cose visibili e quelle
invisibili, la veglia e il sonno. Ho imparato la dottrina dei sogni dagli ebrei
di Israele, dove pure ho vissuto studiando i loro usi e costumi.
Tutti gli allievi esprimono
stupore parlottando tra di loro.
Pitagora continua:
-Voi vi meravigliate per quello
che ho detto? Allora io vi dico che c’è una provvidenza, un ordine che governa
tutte le cose. Il Dio ha voluto che io venissi in Italia perché questa terra è
a lui cara e perché io vi seminassi la sapienza appresa da tutte le genti. In
questa terra la filosofia vivrà perenne e passeranno millenni, ma, quando al
Dio piacerà, rifiorirà per aiutare le umane sorti: dall'Italia verrà la nuova
civiltà del mondo! Già adesso alcuni
chiamano questa terra Megàle Ellàs, Magna Grecia, non per la ricchezza delle
città e la floridità dei commerci, ma per la grandezza e la diffusione della
nostra dottrina. E tu, mia diletta Teano, assieme alle altre donne, va a
impastare un pane a forma di bue. Quando sarà cotto lo offriremo al Dio per
ringraziarlo e faremo un sissizio con musica e danze!
Scena terza e ultima
Si vede una madia di legno dentro la quale le allieve
impastano la farina con acqua. Parlano tra di loro e si consigliano:
Una dice:
-Metti un po’ più di acqua di
mare, se no il pane viene scipito.
L’allieva alza un’anfora e versa
acqua nella madia:
-Ho attinto quest’acqua dal Ionio
stamane, quando il sole si levava all'orizzonte.
Gli allievi stanno attorno a
guardare e scherzano. Uno dice:
-Se fate il bue troppo grande non
entrerà nel forno!
Un’allieva gli risponde:
-Vuoi che proviamo a mettere te
nel forno per vedere se entri?
Finito l’impasto danno forma al
bue. Una dice:
-Non fargli la coda troppo
sottile, sembra quella di una capra!
L’altra risponde:
-Allora la faccio grande quanto
la tua gamba!?
Un’altra ancora:
-Queste corna sono grandi come
quelle di un bue lucano!
Un’altra ancora risponde:
-Meglio, a chi toccheranno le
corna avrà di che mangiare!
Finiscono di dargli la forma e lo
coprono per farlo lievitare.
Teano, moglie di Pitagora,
incoraggia le allieve:
-Amiche mie care, aspettando che
il bue lieviti, danziamo in onore delle Muse, simbolo della concordia: un solo
nome ne indica sette!
Le allieve danzano lentamente sulla
scena e a lato appaiono gli allievi che a turno recitano, a voce alta, le
massime pitagoriche.
Primo:
-Onora i genitori e i parenti
prossimi e fatti amico degli uomini virtuosi.
Secondo:
-Domina il ventre, il sonno, la
lussuria e l’ira, pratica la giustizia nelle opere e nelle parole.
Terzo:
- Ogni uomo è a se stesso causa
del proprio bene e del proprio male.
Quarto:
-La vittoria non è buona perché
genera invidia. E’ bello gareggiare con gli amici senza vincitori né vinti
perché la vittoria sporca il vincitore.
Quinto:
-Molti dolori devono sopportare i
mortali: la parte che ti tocca, sopporta con coraggio e non lamentarti.
Sesto:
-Sii fiducioso, o uomo, perché
divina è la stirpe dei mortali. Non odiare il tuo amico per un piccolo sbaglio!
La famiglia è tutto, conservala nell'armonia!
Settimo:
-Non cercare gloria né ricchezze,
non accumulare sostanze. Dona ogni tuo avere alla comunità e non trattenere
nulla per te!
Finite le danze e la recitazione,
un’allieva accende il forno con le fascine. Tutti si danno da fare per mettere il
bue a cuocere nel forno. Poi le allieve, una alla volta, avanzano al centro
della scena e recitano a voce alta i precetti pitagorici. Nel sottofondo si
sente una musica arcaica.
Prima:
-Non passare oltre la bilancia,
cioè non prevaricare.
Seconda:
-Non attizzare il fuoco col
coltello, cioè non eccitare con parole taglienti chi è in collera.
Terza:
-Non sfrondare la corona, cioè
non violare le leggi.
Quarta:
-Non mangiare il cuore, cioè non
tormentarti con l’ansia del domani.
Quinta:
-Non accogliere rondini in casa,
cioè non vivere insieme a persone ciarliere.
Sesta:
-Non stare seduto sul moggio,
cioè non vivere ozioso.
Settima:
-Non camminare per le vie
frequentate dal popolo, cioè segui solo le opinioni dei pochi e colti.
Entra in scena Pitagora e tutti
fanno silenzio al suo ingresso.
Teano, la moglie, dice:
-Mio diletto sposo, fra poco il
bue sarà cotto. Vuoi disporre per l’offerta?
Pitagora:
-Oggi è giorno memorabile,
abbiamo risparmiato la vita all'animale e offriremo al Dio un bue di pane. Mai
i nostri altari si macchieranno di sangue!
Teano apre il forno e toglie il
bue che viene mostrato al pubblico. Le allieve lo adornano di fiori e lo
adagiano sull'altare di marmo che sta a lato della scena. Pitagora stende le
mani sul bue, tutti stendono le mani, palme in su in segno di offerta, e
cantano:
O Dio dell’universo,
Il bue noi ti offriamo
Fatto di spighe d’oro
D’Italia il biondo grano,
Da noi allontana i mali
Dacci concordia e pace
Salva la nostra Italia
Di cuore Ti preghiamo.
Poi Pitagora e Teano spezzano il
bue, lo danno agli allievi e allieve che lo distribuiscono ai presenti.
Fine
Revisione del 18 giugno 2014 del testo inizialmente dal titolo Italia Italia
1 commento:
molto bello nella sua semplicitá. Mi piacerebbe vederlo in scena con un vero forno e un vero bue di pane che alla fine viene distribuito agli spettatori. Salute fratello!. Cesare
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