mercoledì 14 aprile 2010

LETTERA A DON EDOARDO

Lettera a don Edoardo Varano (fondatore della Villa della Fraternità in Sant’Andrea Ionio)

Milano, 1 novembre 1994

Caro don Edoardo,

il pomeriggio del 28 agosto 1994 ero passato dalla Villa della Fraternità per salutarVi; mi dissero che eravate a leggere sotto i pini e mi avviai verso gli alberi che mitigavano l'afrore canicolare con la loro essenza. Discosto da Voi sedevano le Suore delle Poverelle, intente a letture edificanti. Voi invece avevate in mano il mio Ritorno in Calabria e segnavate alcuni passi a matita: orgoglio e commozione si azzuffarono brevemente dentro il mio petto.

"Non hai scritto nel tuo libro che mio zio don Luigi era un santo sacerdote!" mi apostrofaste con rimprovero.

Ah, il vecchio e tremebondo don Luigi, che passava le giornate chiuso in casa e sul comò della stanza da letto teneva un teschio di morto! Don Luigi, che faceva la pipì tenendo il membro con un pezzo di carta per non commettere peccato di impurità! Don Luigi, sempre terrorizzato dalla vita ed angosciato dall'idea di aver bestemmiato Dio con il pensiero! Ricordo una mattina dell'estate del 1959 che don Luigi entrò nella sacrestia della chiesa matrice. Appese il cappello e supplicò l'arciprete Samà:

"Arciprete, confessami perché ho peccato!"

"Finirà che tu ti salvi l'anima, ma a me la fai dannare!" borbottò l'arciprete.

E senza nemmeno farlo inginocchiare, lo assolse dai suoi peccati immaginari. Don Luigi si rasserenò e si vestì per la messa cantata nella quale lui faceva da suddiacono. Io ero l'inserviente e avevo già suonato la campanella che annunciava l'inizio della messa, quando don Luigi afferrò l'arciprete dalla manica: "Aspetta, devo confessami!". "Ma se ti ho confessato appena cinque minuti fa! Che peccati puoi aver commesso in mezzo a tutti noi!?" ribatté arrabbiato l'arciprete.

"Mentalmente ho lanciato una terribile bestemmia!" disse don Luigi.

"Tu non hai un cazzo da pettinare! (in andreolese si usa questa espressione per indicare che uno non ha niente da fare). "Io ti rompo il calice in testa" sbottò iroso l'arciprete Samà spingendo don Luigi verso l'altare.

Povero don Luigi! L'unica volta che si azzardò a tenere un panegirico, salì sul pulpito senza riuscire a pronunciare una sola parola e fu scosso da tremiti violenti finché non lo tirarono giù. Certo, era un uomo buono che lasciò tutto ai poveri, ma non era santo per la scrupolosa osservanza dei precetti pazzeschi della Chiesa. Sarebbe stato più santo se avesse pensato di meno al peccato e alla morte badando invece a vivere.

Ma torniamo al pomeriggio del 28 agosto. Io ero disposto ad ascoltarVi senza preconcetti, pronto a rivedere tutte le mie idee se Voi, dall’alto della Vostra esperienza ventennale di docente di centinaia di sacerdoti, mi convincevate che avevo sbagliato, che non avevo il diritto di mettere in discussione duemila anni di cristianesimo con innumerevoli testimonianze di fede, di opere e pensiero. Mi sedetti su una soglia di granito che riverberava calore. Il mare aveva colori sbiaditi, come se l'azzurro fresco del mattino si fosse sciupato durante il giorno. La mia domanda fu precisa:

"Come può la pena capitale della croce, il sangue versato da Gesù essere strumento di redenzione? Il sangue non lava, ma sporca; il sangue serve per portare l'ossigeno dai polmoni ai tessuti. Un Dio che accetta, anzi pretende il sangue del figlio per la salvezza degli altri è pura follia, è il veleno della cristianità. E' la legittimazione, anzi la sacralizzazione della violenza."

Voi faceste uno sforzo di sintesi e a chiare parole mi spiegaste:

"L'uomo con il peccato ha offeso Dio, che è bene infinito, e qualcuno doveva riparare l'offesa pagandone il prezzo. Perciò Gesù, figlio di Dio, con il suo sacrificio di valore infinito ha cancellato tutti i peccati del mondo".

Tremai quel pomeriggio al pensiero che un'idea così banale, rozza e primitiva come il pagamento era stata innalzata addirittura a dogma della fede cristiana. Mi perdonino i miei amici ebrei, ma questa idea fissa del prezzo, del pagamento, del danaro è tipica della loro cultura. Il pagare un debito è per gli ebrei di fondamentale importanza; non è certo una preoccupazione che toglierebbe il sonno a un napoletano, tanto per fare un esempio. Ma poi pagare per che cosa? Per quella mela del paradiso terrestre! Se proprio dobbiamo pagarla, possiamo farlo con una camionata di ottime mele della Val di Non! Il peccato della mela non esiste, come non esiste quello di Prometeo che rubò il fuoco agli dei. C'è un solo vero peccato e si chiama violenza; tutto il resto è errore. Errore deriva da errare, vagare, andare alla ricerca: l'errore è connaturato all'uomo, è il suo metodo di crescita: errare è umano. Non è un modo di dire che Gesù si è sbagliato, che ha commesso un errore a finire sulla croce: ha cercato a modo suo e con folle generosità di bloccare i meccanismi della violenza. Noi dobbiamo imparare la lezione della croce ed evitarla, mentre la Chiesa nei secoli ha additato la croce come mèta ambiziosa da raggiungere.

Croce, sacrificio, redenzione: questi sono i tre punti basilari del cristianesimo: così affermava la sera del 19 ottobre 1994 in televisione il cardinal Ruini presentando il libro di Papa Wojtyla Varcare la soglia della speranza. Il papa, i cardinali e tutti gli altri non si rendono conto che la proliferazione delle croci nel mondo cristiano -streghe, eretici, indios, ebrei- deriva dal principio malsano che la morte di un innocente è necessaria per la salvezza. Nessuna speranza può venire da questa dottrina, ma solo angoscia e morte.

E a questo proposito devo raccontarVi una storia che vi riguarda personalmente. Deve essere successo intorno al 1950 quando avevo nove anni. Ero andato da mia nonna Marianna, che abitava accanto a casa Vostra. Mi vide Vostro padre Francesco e mi condusse nel basso pieno di botti di vino, vasi di ulive e ceste di melagrane. Prese una di queste ultime con i chicchi in mostra come rubini e me la diede. Vostra madre Rosariuzza, con un pentolino pieno di zolfo bollente, stava sigillando le doghe della botte grande, la più grande di tutto il paese, che aveva una porticina da dove entrava una persona quando era il momento di pulirla. Lei mi chiese:

"Cosa vuoi fare da grande, il forgiaro come tuo padre che è sporco dalla mattina alla sera? Meglio se ti fai prete come mio figlio Edoardo che è un santo sacerdote. Pensa che durante la guerra mondiale ha fatto penitenza dormendo sempre vestito per ottenere la pace."

Questo mi raccontava Vostra madre circa mezzo secolo fa e ora io collego il Vostro dormire vestito a papa Pio XII che durante la guerra dormiva sul pavimento per penitenza, ma non intervenne in favore degli ebrei. Inutilmente si affannano i Gesuiti a spulciare gli atti della Sede Apostolica per dimostrare che Pio XII fece il possibile per salvarli. Il papa non protestò contro il loro sterminio per il semplicissimo motivo che lui era intimamente sacerdote. E il sacerdote altro non è che il mediatore di violenza, quello che mette d'accordo carnefice e vittima fino a indurli al sacrificio: sacerdozio, sacrificio e vittima sono il trinomio che ha portato il mondo alla desolazione. Voi nel silenzio della Vostra cameretta, il papa nel grande silenzio dell'appartamento in Vaticano, credevate di offrire penitenze meritorie e invece eravate complici di uno sterminio di massa. Come avrebbe protestato Pio XII, e come protestano i suoi successori a gran voce, se qualcuno mette in discussione la morale sessuale della Chiesa! Come parlano chiaro se qualcuno si azzarda a ipotizzare l'uso di contraccettivi e profilattici: encicliche, commissioni di studio, prediche, interventi!

La religione cristiana per millenni ha evocato sangue e sacrificio in ogni messa e ha sommerso l'umanità sotto un diluvio di sangue. L'evocazione crea un’attesa che viene riempita dall'avvenimento evocato. Si è evocato il volo umano dai tempi di Icaro, e oggi l'uomo vola con facilità da un continente all'altro. Ugualmente, se non evochiamo la fine di ogni violenza e di ogni inutile sacrificio, a cominciare da quello di Cristo, non entreremo nella civiltà ‘sissiziale’, conviviale, la nuova civiltà nella quale Gesù viene tolto dalla croce perché nessuno vuole più il suo sangue. Anzi lui stesso, vittima per eccellenza, viene invitato al convivio a bere con noi il vino. E con le assi della croce faremo la tavola del convivio.

Per rispondere a una mia obiezione diceste anche, quel pomeriggio, che a volte gli uomini sbagliano, mentre i princìpi di fede sono sempre santi e giusti. A volte mi illudo che sia ancora possibile salvare la tradizione cristiana nella quale il nostro popolo, la mia famiglia, io stesso siamo stati allevati. A mente fredda devo riconoscere però che aveva ragione don Ciccio Laugelli quando diceva: "Il pitale della tradizione cristiana è talmente incrostato di sporcizia che non c'è niente capace di lavarlo. Bisogna buttarlo via."

Termino con un pensiero che mi viene nel chiudere questa lettera e che curiosamente mi mette di buon umore. Strano destino è il mio: da allievo problematico dei preti sto diventando il loro migliore maestro e restituisco loro in luce quello che mi diedero in tenebra, in amicizia la slealtà, in coraggio la paura, in allegria il pianto.

Salvatore Mongiardo

LETTERA A DON GIOVANNI

Lettera a don Giovanni (parroco di San Bovio presso Milano)

Milano, 20 febbraio 1994

Caro don Giovanni,

ho lasciato passare tre mesi dal nostro incontro del 20 novembre 1993 prima di scriverle la presente. Per alcune coincidenze, che solo adesso mi appaiono chiare, quel giorno rappresenta una tappa importante della mia vita. Il comune amico Ernesto Le aveva dato il manoscritto del mio Ritorno in Calabria. Lei l'aveva letto durante l'estate e aveva espresso il desiderio di incontrarmi, cosa che ho fatto molto volentieri perché nulla è per me più piacevole che discutere del mio libro. Mentre Lei mi preparava il caffè, guardavo le sedie in velluto rosso, i quadri dei santi alle pareti, il lindo decoro di tutta la canonica. Sentivo anche le scampanellate, alla porta, di persone che La cercavano per mille motivi. E riflettevo alla mia solitudine nella quale vivo male, ma alla quale sono costretto a rientrare non appena cerco di uscirne. Da qualche tempo l'incontro con altri mi arreca qualcosa di brutto, di sgradevole, di cattivo. Da solo sto male, ma con gli altri sto peggio.

Durante il nostro colloquio Lei mi faceva notare che eravamo praticamente coetanei, Lei del Nord e io del Sud, entrambi educati nei seminari, ma con storie personali che poi divergevano. E mi sottolineò che provava dispiacere perché dal mio libro traspariva dolore in ogni mio approccio verso la Chiesa. Lei voleva aiutarmi a superare questa lacerazione, forte della Sua esperienza di sacerdote felice nella vita e nella fede. Inoltre mi faceva osservare che dal mio libro il seminario appariva unicamente come un luogo di oppressione. Non faccio fatica a darLe ragione su questo punto. Il seminario era anche un luogo dove ho riso e dove ho organizzato storiche burle, dove ho anche stretto amicizie tra le più solide e affettuose, e il mio pensiero va al fraterno amico don Peppino Scopacasa, arciprete di Mongiana in Calabria, l'uomo più allegro della terra. E' vero, il seminario era pure, con tutti i suoi limiti, scuola di apprendimento delle lettere e delle scienze, nonché sede di mistiche atmosfere tanto consone all'arcana bellezza della Calabria. Di tutto questo sono ben cosciente, eppure non riesco a pensare al seminario se non come a un periodo triste e sconsolato della mia vita, una punizione per non so quale peccato. Forse, poiché davanti a Dio non esiste passato e futuro, Lui mi ha punito agli albori della vita per un crimine che dovrò ancora commettere. Ma dovrà essere un peccato veramente mostruoso, una specie di YBRIS, l’oltraggio dei Greci contro la divinità se, a distanza di oltre trent' anni, il tempo trascorso in seminario è impresso nella mia mente come una dolorosissima marchiatura a fuoco.

Quello che accadde dopo il nostro colloquio, e che Lei ovviamente ignora, mi sembra talmente importante che merita di essere scritto con la massima cura. A malincuore lasciai la canonica, sapendo che la Sua giornata era piena di mille impegni, mentre la mia pencolava nel vuoto. Un pallido sole novembrino rischiarava la facciata della chiesetta attaccata alla canonica; la porta era aperta ed entrai a cercarvi un attimo di serenità. Vidi a sinistra l'affresco di scuola leonardesca del battesimo di Gesù e, a destra, l'urna con le ossa del martire San Bovio. Mi sedetti e appoggiai la testa sullo schienale del banco di fronte, con un gesto a me ben noto in gioventù. Chiusi gli occhi e mi rividi nella cattedrale di Squillace, durante i vespri in onore di Sant'Agazio, martire di Cappadocia, patrono della città e di tutta la diocesi. La gran chiesa sfavillava di luci, il vescovo Fares sembrava veramente il faro alto e fiammeggiante raffigurato nel suo stemma episcopale, tanto brillavano pastorale e mitria, anello e croce pettorale. Il vecchio sacrestano girava la manovella del mantice dell'organo e il decrepito canonico Fulciniti riusciva a stento a premere i tasti con le dita mentre cantavamo in coro:

O ter quaterque et amplius

beata semper arcula

quae tanti sacra militis

ossa recordis gremio.

(O tre, quattro e più volte

sempre beata urna

che di un sì gran soldato

le ossa racchiudi in seno).

Era il maggio odoroso e i nostri volti giovanili ardevano di fede e preghiera. Allora io ero certo, certissimo che, come fra poco sarebbe scoppiata l'estate in Calabria, così la chiesa era prefigurazione della gioia infinita alla quale Dio ci chiamava nel cielo. Fu durante quei vespri solenni che don Ciccio Laugelli, il quale sedeva in rossa mozzetta arcipretale negli stalli dietro di me, disse rivolto a don Paolo Sorrenti, perennemente pallido e teso:

"Lo vedi Sant'Agazio con la palma del martirio e le ossa in bella mostra nell'urna? Si è fatto uccidere perché ha rifiutato di bruciare un po' d'incenso agli dei dell'Olimpo. Adesso il vescovo Fares lo incensa quante volte vuole e tutti in coro gli cantiamo una bella ninna nanna in latino!"

Allora avevo quattordici anni, l'espressione di don Ciccio Laugelli mi sembrò blasfema. Dopo tanti anni, guardando le ossa di San Bovio nella Sua chiesetta, mi resi conto che don Ciccio aveva il dono della comprensione profonda delle cose. Perché tanto sangue e ossa di morti attorno a Gesù che si proclama vita lui stesso? Perché in ogni altare, sul quale si ricorda, o si rinnova secondo i cattolici, il sacrificio della croce, c'è la pietra sacrale, quel tassello al centro del marmo che racchiude le ossa dei martiri?

Lasciai la chiesetta e a piedi me ne tornai a casa. Era l'una e mi misi a tavola mentre il telegiornale trasmetteva che papa Giovanni Paolo II riconfermava il divieto alla contraccezione durante un'udienza nella quale Luc Montagne, lo scienziato dell'Istituto Pasteur di Parigi, lo aveva inutilmente supplicato di liberalizzare l'uso del profilattico. Pochi anni prima lo stesso papa in terra d'Africa aveva severamente proibito il profilattico, mentre attorno le persone morivano di AIDS come le mosche. Poi il telegiornale passò a un'altra notizia. Il gran capo della mafia Totò Riina, imputato di numerosi omicidi, si rifiutava di parlare con il pentito Tommaso Buscetta perché quest'ultimo per Riina era un uomo senza morale: era andato con più donne! In un istante compresi che il papa e Riina affermavano la stessa cosa. Per loro contava soprattutto il comportamento sessuale: i morti, le vittime erano solo una triste necessità per raggiungere un fine. Per Riina il fine era l'arricchimento; per il papa l'osservanza di una legge che lui proclama divina e della quale si professa massimo custode. Ora più che mai sono convinto di quanto ho scritto nel Ritorno in Calabria: la Chiesa ha perso nel Rinascimento la battaglia contro la scienza e perderà adesso la battaglia contro il sesso perché sta ricoprendo la terra di morte e contraddizione, cioè di ipocrisia. Con quale faccia tosta il papa permette il sesso, a chi non vuole figli, solo quando la donna è infeconda? Se lo scopo è identico, che cioè non ci sia frutto, che differenza fa se uno getta la semente nel ruscello o se la sparge sul terreno arido dove non può germogliare? Chi può affermare che un comportamento è contrario alla legge di Dio e l'altro conforme? In verità la passione carnale è come un vento di primavera che strappa via i fiori dall'albero. Ma per quanti ne strappi, ne rimangono ancora molti per dare frutti. I fiori sono numerosi proprio perché il vento possa strapparne senza danno: Dio ha dato la vita e l'ha data in abbondanza.

Ma tutto questo è poca cosa di fronte all'orrore dell'aborto, contro cui la Chiesa tuona da tutti i pulpiti e del quale è invece la causa primaria. Tucidide scriveva che chi può evitare un male e non lo fa, quello è il vero responsabile. E cosa fa la Chiesa se non rimanere insensibile di fronte al saccheggio giornaliero degli uteri, alla carneficina incessante dei non nati? In ogni malattia o disastro la buona regola è prevenire: in base a quale logica, a quale precetto evangelico, la Chiesa proibisce la prevenzione dell'aborto, cioè la contraccezione? Ho scritto e lo ripeto, e vorrei che tutti i vocabolari di tutte le lingue della terra, vive e morte, torcessero le loro alfabetiche budella e sputassero fuori le parole più forti, più tremende, più orribili, per esprimere il mio sdegno e la mia condanna. Nei libri di storia il massacro dei non nati peserà sulla Chiesa come la più grande infamia di tutti i tempi.

Un'ultima cosa voglio dirLe, caro don Giovanni. Alla Chiesa non saranno dati altri secoli per scusarsi di questa carneficina, come ha recentemente fatto con la farsa della riabilitazione di Galileo. La storia, justus judex ultionis, “giusto giudice di vendetta”, presto romperà il maledetto trinomio di sacerdote, sacrificio e vittima.

Dalla finestra del mio studio vedo il bel campanile della Sua chiesa e sento l'orologio che suona le ore. Fino a poco fa ero triste e invidiavo la Sua vita. Ora non più. So che non entrerò più nella Sua chiesa e in nessun’altra, anche se mi dispiace e mi rendo conto che la mia lacerazione è insanabile. Starò lontano dalla Chiesa di Roma per un motivo molto semplice: il mio onore. Solo persone senza onore possono sopportare la mattanza dell'aborto e rimanere in quella Chiesa rendendosi complici di questo scandalo: l'omertà di mafia al confronto è poca cosa!

Caro don Giovanni, io ho finito la mia amara riflessione e La lascio con l'augurio che la storia possa consumare il cuore di pietra dei sacerdoti, così come il mare scava anche il basalto più duro.

Salvatore Mongiardo

lunedì 5 aprile 2010

IL FRUTTO DEL CEDRO CALABRESE NEL CULTO E NELLA CULTURA EBRAICA


Da qualche tempo mi ero posto il problema di come l’Italia era vista e conosciuta nel mondo ebraico prima di Cristo. Questo mio interesse era stimolato dall’aver letto in Giuseppe Flavio che gli Esseni seguivano la dottrina insegnata ai greci da Pitagora che ebbe scuola a Crotone. La recente affermazione di Benedetto XVI che Gesù seguiva la dottrina essenica, fatto ormai condiviso da tutti gli studiosi, mi ha spinto a esplorare meglio la conoscenza che gli ebrei avevano dell’Italia nell’antichità. Ho ripreso così la storia del cedro calabrese, alla quale avevo accennato già nel mio Viaggio a Gerusalemme del 2002.

Il cedro della Calabria è tenuto in grande considerazione dagli ebrei della corrente Lubavitch, città della Bielorussia oggi Ucraina, dove nel Millesettecento nacque il grande Movimento Chassidico dell’ebraismo, adesso seguito dagli ebrei che portano barba, cappello nero e camicia bianca, e hanno il centro più importante a Brooklyn, N.Y.

Le notizie sul cedro calabrese si trovano nel secondo volume del TANYA, opera filosofica del gran rabbino Schneur Zalman di Liadi (1745-1812), e nel commento alla Bibbia di Rashi, o Rabbi Shlomo Yitzhaqi (1040-1105), uno dei più famosi commentatori medievali che visse in Francia intorno al Millecento.

Come sappiamo dalla Genesi, Isacco sposò Rebecca ed ebbe due gemelli, Esaù e Giacobbe. Esaù era il primogenito, ma la benedizione fu data a Giacobbe. Isacco allora per riparare il torto, fece a Esaù una grande promessa:

Nel grasso della terra sarà il tuo luogo di residenza.

Il grasso della terra, o terra fertile perché produce olio di oliva, era l’Italia della Grecia, come veniva chiamata dagli ebrei l’Italia Meridionale o Magna Grecia.

La tradizione riportata dal rabbino chassidico Y.Y. Schneerson, vuole che quando Mosè era nel deserto con il popolo fuggito dall’Egitto, ricevette da Dio l’ordine di celebrare la festa delle Capanne o Sukot. Per quella festa era indispensabile il frutto del cedro che Mosè ovviamente non poteva trovare nel deserto, e allora mandò dei messaggeri su una nuvola a prenderlo in Calabria.

Anche se non si hanno prove certe, è ragionevole supporre che già ai tempi degli antichi romani il cedro fosse preso in Calabria. Sicuramente negli ultimi 250 anni gli ebrei Lubavitch l’hanno cercato a Santa Maria del Cedro e a Marcellina, in provincia di Cosenza. Questo è avvenuto anche durante la prima e la seconda guerra mondiale, nonostante tutti gli sconvolgimenti.

Nella festa delle Capanne si usano per la benedizione:

1. il frutto del cedro che ha gusto e profumo

2. la palma da dattero che ha gusto ma non profumo

3. il mirto che non ha gusto ma ha profumo

4. il salice che non ha né gusto né profumo.

Il gusto simboleggia lo studio della Torà, i primi cinque libri della Bibbia conosciuti anche come Pentateuco; il profumo è l’osservanza dei Mitzvot o Comandamenti. Le quattro piante assieme simboleggiano l’unità del popolo ebraico di cui ogni membro è parte vitale.

Il cedro è un frutto definito haddar, splendido, parola che significa anche risiedere. Secondo gli ebrei l’albero del cedro non era facile da crescere perché le radici vanno in orizzontale e, con il caldo, l’albero poteva morire. Allora bisognava mettere della terra facendo una montagnetta attorno al fusto. Il limone invece ha radici che vanno in profondità per cui era facile la tentazione di innestare il cedro su un limone, ma allora la purezza originaria del cedro non era totale e il frutto non era più kosher, puro, come si è mantenuto sempre quello calabrese.

Il cedro che si sceglie per la festa non deve essere molto grande, perché i frutti grandi non sono quasi mai perfetti: hanno qualche macchia o puntino nero. Dopo la festa oggi il frutto non è mangiato, e qualcuno ne fa marmellata.

Nel Midrash, il commento rabbinico alla Bibbia che mette in luce gli insegnamenti giuridici e morali utilizzando diversi generi letterari come racconti, parabole e leggende, l’albero della conoscenza dell’Eden non era il melo, ma proprio il cedro. Quest’unicità del cedro viene confermata dal fatto che è l’unico albero che ha lo stesso gusto sia nel legno della pianta che nel frutto.

C’è anche da notare che in ebraico Italia significa terra della rugiada, quindi non solo terra grassa ma anche irrorata d’acqua: un sogno per gente che vagava nel deserto.

Ringrazio per queste informazioni, qui riportate in forma necessariamente semplificata, il rabbino Michail Elmalèh di Milano.

Salvatore Mongiardo