Domenica 28 dicembre 2008
Signor Sindaco, gentili signore e signori,
Io non conosco in tutta Italia un’opera così completa e ampia che confronti la lingua parlata di un paese con l’italiano. Questo miracolo si compie per l’andreolese, lingua nostra e del nostro popolo, sparso per l’Italia e le Americhe.
Non sapete come si chiamavano le parti di un carro tirato dai buoi? Aprite il Dizionario e vedrete cosa erano lettèra, tramenzuni e stamigni. Volete conoscere i termini di ogni cosa che i vasai, i famosi argagnari di Sant’Andrea, usavano? Per ogni termine troverete significato e corrispondente in italiano.
L’italiano, appunto. A me piace immaginare che questo Dizionario sia la rivolta di Enrico, concepita negli anni intorno al 1945, quando lui iniziava a frequentare le scuole elementari nell’Edificio Scolastico qui vicino. Non si dice pitta, ma focaccia! Non si deve dire currijùazzu, ma cinghia! Cosa è questo faddala, si deve dire grembiule, ci sgridavano i maestri. Con questa opera è come se Enrico, e noi tutti assieme a lui, ci fossimo riappropriati dei nostri territori linguistici dentro i quali siamo stati allevati dai genitori e dalla ruga. Dirò di più. Enrico ha risolto quello che Freud definì il primo problema di ogni persona, quello dell’identificazione: chi sono io? Enrico risponde senza dubbi: io sono e sempre sarò andreolese.
I filologi e i linguisti si occuperanno della parte scientifica di questo Dizionario, che è sostanziosa. A me preme piuttosto dare una risposta a una domanda che questo Dizionario mi ha posto. Cosa spinge una persona a spendere energie enormi per trenta anni nel compilare una tale opera? Il desiderio di gloria? Non mi sembra il caso di Enrico, anche se alla gloria siamo tutti sensibili. Il desiderio di salvare il salvabile di una cultura in estinzione per consegnarla ai posteri? E’ quello che comunemente si pensa, e che anche Enrico pensa. A me sembra però che salvare la conoscenza per i posteri sia solo la ragione apparente. La ragione vera, profonda non viene detta per pudore e si chiama semplicemente amore. L’origine di questo Dizionario è l’amore del suo autore per le persone, le piante, i cieli, le campagne, gli alberi, le piante, le botteghe artigiane, i contadini con le zappe, i canali dell’acqua, gli orti e le vigne in mezzo ai quali Enrico si è cresciuto. Enrico ama disperatamente tutte le cose che hanno fatto parte della sua esistenza e li riporta a nuova vita, anche se erano pumiceddha e maju o garici o curgejjha. A ognuna di queste cose Enrico consegna il passaporto per l’eternità perché non si rassegna all’idea che possano scomparire. E’ incondizionato il suo amore per quel mondo che fu semplice in apparenza. In realtà fu terribilmente difficile, e nel breve spazio che va dallo Ionio alla Lacina, dal fiume Alaca a Saluro, fece da scena di rappresentazione della storia del mondo con il suo carico di bene e di male: U mundu, ca’ cui u cangia u mundu! U mundu è mpamu, dicìa Caramanti.
Enrico vorrebbe conservare per sempre anche l’elemento più inafferrabile, il vento, sia che soffi come vucchjata, rispiru, rijhatu da menzajornaqta, spiffaru, refulata, o quando rinforza e diventa fischiu, ngusciu, jhujjhalora. Cerco di immaginare cosa diranno fra cento anni gli specialisti di filologia di qualche università del mondo consultando questo Dizionario. E penso che potranno trovare una risposta a qualche termine, ma sarà come una luce rarefatta, lontana. Non sarà u vambacaru che io ho visto, con la bottega piena di fiocchi di bambagia come se nevicasse, e il rumore dell’attrezzo per scardassare: mba mba mba… Per noi presenti, per me oggi, da questo Dizionario viene invece una lezione di vita. E cioè che senza finzioni e senza vergogna si possono amare le cose minime, u fusu, a lampa, a chiccareddha’e l’ùajjhu. Ogni elemento della natura, ogni persona che ci è stata compagna di viaggio, anche se erano i reietti o gli scemi. E’ quindi una lezione di aderenza alla realtà che fu contadina e povera, ma anche buona e generosa. La lezione di Enrico è quella di una persona che mai si è mossa dal suolo natio, pur affrontando studi, famiglia e tutti i cambiamenti che negli ultimi decenni sono arrivati a valanga uno dopo l’altro.
Nella grande confusione del mondo attuale che si globalizza in tutto, anche nella crisi e nella paura del domani, Enrico ci presenta in quest’opera un mondo che seppe vivere con poco e sicuramente visse con meno angoscia, felice se c’era un pezzo di pane e un bicchiere di vino.
E’ per questo che a nome mio personale, di tutti gli andreolesi sparsi per il mondo, di voi tutti presenti, ringrazio Enrico e mi felicito con lui per aver raggiunto questo grande traguardo. E termino con un augurio in andreolese: Avanti mìagghu!
Salvatore Mongiardo
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