sabato 14 dicembre 2024

Cade la sera di don Ciccio Laugelli

 Cade la sera

 

Cade la sera, un velo di tristezza

cade nel cuore, come fatto fosse

di queste foglie penzolanti rosse

                        all’invernale brezza.

 

Il tuo paese è là, sotto una lieve

coltre di fumo azzurro, presso i monti

che ancora bianche levano le fronti

                        di cumuli di neve.

 

Valica la distanza sconfinata

l’occhio che di te sola ama saziarsi,

e ti ritrova coi capelli sparsi

                        sulla fronte, chinata

 

al sogno, nel silenzio. Un sol sentiero

forse nell’ombra noi battiamo, inverso:

e si congiunge nel buio universo

                        il tuo col mio pensiero.

 

Sublime poesia composta da don Ciccio Laugelli (intorno al 1960?) e indirizzato a una donna reale o di fantasia.

Salvatore Mongiardo, dicembre 2024

sabato 7 dicembre 2024

A Maria, di don Ciccio Laugelli

 A Maria

 

O Maria Immacolata,

che eccelsa levi al cielo

la tua fronte stellata

ed il candido velo,

 

s’alzi il grido profondo

del tuo amore materno

in quest’ore d’inferno

scatenato nel mondo.

 

Dacci giorni di pace:

Dio giammai si dinega

al tuo cuore che prega,

al tuo labbro che tace.

 

Nella gelida sfoglia

dell’inverno che torna

sii la rosa che foglia

e l’aurora che aggiorna.

 

Stupenda poesia del mio indimenticabile maestro don Ciccio Laugelli, scritta l’8 dicembre 1975.

 

Salvatore Mongiardo

8 dicembre 2024

lunedì 14 ottobre 2024

S: Mongiardo- Lettera ai Calabresi per la pace nel mondo

S. Mongiardo-Lettera ai Calabresi per la pace nel mondo

 Care Amiche e cari Amici,

io sono nato nel 1941 in Calabria da genitori e progenitori calabresi. Ho passato l’infanzia e la gioventù sulla costa jonica catanzarese; poi cinquanta anni tra studi e incarichi manageriali in Sicilia, Roma, Germania, Francia, Sardegna e un periodo di trenta anni a Milano. Nel 2013 ho lasciato per mia libera scelta Milano per tornare in Calabria, a Soverato, città vicina al mio paese natale, Sant’Andrea Jonio. Quel ritorno era preannunciato nel mio primo libro Ritorno in Calabria (1994), del quale il Prof. Antonio Piromalli ha scritto ne La Letteratura Calabrese (L. Pellegrini Editore) alle pagine 341 e 342:

 La natura di Mongiardo è seriamente utopistica (ripresa della grande tradizione culturale naturalistica della Calabria e religiosità umana e universale) …

Il romanzo di Mongiardo è molto importante anche perché assegna alla Calabria una funzione storica nel futuro… L’opera di Mongiardo è ideologicamente geniale. L’autore, dopo un viaggio in America per ritrovare parenti emigrati da molto tempo e custodi dell’immagine di una Calabria aspra e difficile, comprende lo sforzo da lui fatto per sfuggire la Calabria, quella del ‘’buco nero che aveva spento’’ il lui la gioia di vivere e decide di scrivere.

 Riporto lo scritto del Prof. Piromalli non per orgoglio o vanagloria, che non fanno parte del mio carattere, ma perché quel giudizio mi ha aiutato a capire me stesso e a farmi ritornare in Calabria, una decisione che lasciò sgomenti i miei amici, i quali mi vedevano come uno sconsiderato che ritorna in un posto carico di problemi. In effetti, gli ultimi dieci anni passati in Calabria sono stati faticosi per lo studio, la ricerca e la scrittura di quella storia della Calabria sconosciuta a tutti, anche agli stessi Calabresi, ignorata dalla storiografia tradizionale. Le mie ricerche hanno portato alla luce una visione completamente nuova della Calabria, che vi voglio brevemente raccontare. 

 La storia sconosciuta della Calabria

Normalmente si ritiene che la storia della Calabria sia cominciata con la colonizzazione greca, ma non è così, perché l’Homo Sapiens abitava in Calabria da diecine di migliaia di anni prima dell’arrivo dei Greci. Per fare un esempio, l’Università di Firenze ha rinvenuto sepolture risalenti al 22.500 a.C. dentro la Grotta del Romito a Papasidero (CS).

Intorno al 10.000 a. C., quando si sviluppò l’agricoltura, la Calabria era abitata da popolazioni che non avevano armi e vivevano in pace in vari villaggi. Facevano parte di quell’Antica Europa, come l’ha chiamata la famosa antropologa lituana-americana Marija Gimbutas, i cui abitanti furono chiamati gilanici dall’altra grande antropologa austriaca-americana, Riane Eisler. Col termine gilanico lei intendeva un popolo libero e pacifico, guidato dalle donne e dedito all’agricoltura. Quel periodo fu cantato dai poeti come Età dell’Oro, quando i popoli vivevano felici, non c’era bisogno di leggi e la comunità provvedeva a tutti i bisogni.

Oggi possiamo affermare che quella non fu un’epoca mitica immaginata dai poeti, ma era semplicemente il ricordo di un lontano tempo felice. Gli archeologi hanno stabilito che le popolazioni gilaniche vivevano in pace, analizzando i resti dei villaggi, dove non c’erano fortificazioni né sono state trovate armi nelle tombe o scheletri con ferite riconducibili a battaglie. Non vi erano nemmeno grandi differenze tra le classi sociali e le sepolture a inumazione erano molto simili, come se non ci fossero ricchi e poveri. 

 

            L’invasione indoeuropea

Intorno al 4.000 a. C., dalle steppe dell’attuale Russia meridionale mossero alla conquista dell’Europa e dell’India - motivo per cui sono chiamati Indeuropei - popoli delle steppe che avevano addomesticato i cavalli selvaggi che cavalcavano, e avevano fatto armi col rame che affiorava in pepite lungo i fiumi. Quegli Indoeuropei sottomisero l’Antica Europa, l’India e una vasta area intorno al Medio Oriente, con invasioni a varie ondate cui nessuno poteva resistere. Il loro dilagare è ricordato dal mito greco dei centauri, esseri violenti per metà guerrieri e per metà cavalli. Anche dal cavallo di Troia in fondo afferma che senza cavallo non si può vincere una guerra. Quelle invasioni durarono un paio di millenni e sottomisero tutto il Nord Europa, salvo una parte dell’Italia Meridionale, tra cui la Calabria. La Gimbutas chiamò quegli invasori Kurgan, dal nome della città russa della Siberia sudoccidentale, a circa duemila km a est di Mosca. Attorno a quella città lei trovò molte tombe a cumulo, nelle quali venivano sotterrati i capi morti assieme ad alcuni giovani scelti e servi che dovevano accompagnarlo nell’aldilà. Le torture, i sacrifici umani, la schiavitù delle donne praticati dai popoli Kurgan raggiunsero livelli di ferocia e crudeltà inaudite.

L’etica gilanica sopravvisse in Calabria, mentre tutta l’Europa incluso Centro e Nord Italia furono sottomesse dagli Indoeuropei. Le differenze tra Nord e Sud Italia si fanno risalire all’annessione del Sud al Piemonte, ma in realtà esse sono vecchie di migliaia di anni e sono profonde perché derivano da etiche diverse. La Calabria resistette più a lungo all’espansione indoeuropea perché difficile da raggiungere via terra a causa delle foreste della Sila, popolate da orsi e lupi. Poi, intorno al 1700 a. C., la Calabria fu colonizzata da greci venuti dal mare, tra cui gli Enotri, dalla cui stirpe nacque Italo, il fondatore dell’Italia, come vedremo più avanti. Tanto afferma lo storico greco Dionigi di Alicarnasso (60-7 a. C.), che scrisse di una colonizzazione arcaica, avvenuta diciassette generazioni (circa 500 anni) prima della guerra di Troia (1200 a. C.).

I Greci della colonizzazione classica, invece, quella da tutti conosciuta, arrivarono circa mille anni dopo, intorno al 700 a. C., e fondarono varie poleis tra cui Taranto, Sibari, Kroton, Locri e Reggio. I fondatori greci delle varie colonie sparse nel Mediterraneo discendevano da quegli Indoeuropei che avevano conquistato la Grecia con armi e cavalli: ciò e confermato dal fatto che alcuni Greci del ceto dominante come Achille, Menelao ed Elena era biondi, come riporta Omero.

 I coloni greci portarono la civiltà in Calabria?

            Si direbbe di sì, ma, se guardiamo a quanto emerge dalle mie ricerche, la risposta cambia a seconda di cosa intendiamo per civiltà. Se la intendiamo come arte, templi, colonne, navigazione, commercio e lingua, la risposta è sì, anche perché la stessa lingua italiana proviene dal latino, il quale è di origine indoeuropea come il greco, il tedesco, l’inglese e altre lingue ora in uso.

Se invece definiamo la civiltà come benessere sociale e gioia di vivere derivanti dall’assenza di competizione, guerre, schiavitù e violenze, la risposta è che la colonizzazione greca segnò l’inizio di una decadenza inarrestabile per la Calabria.

I coloni non portavano con sé le donne, che non potevano remare, e sposarono donne del posto, che da sempre erano libere e continuarono a vivere libere anche da sposate con i coloni. Nello stesso periodo, le donne in Grecia vivevano chiuse nel gineceo, che non era un lussuoso quartiere loro riservato, ma il sottotetto della casa, nel quale esse partorivano, tessevano, cucinavano, conducendo una vita così misera che spesso per disperazione si impiccavano a una trave del tetto. A Crotone non c’erano schiavi e a Locri, nelle Tavole di Zaleuco del VI secolo a. C., la prima legge scritta in greco di tutto l’Occidente, Grecia inclusa, diceva:  

Ai Locresi non è consentito possedere né schiavi né schiave.

Le Tavole di Zaleuco sono di fondamentale importanza perché testimoniano che la libertà italica fu riconosciuta come norma da una polis greca. Si può dire allora che la libertà delle persone e dei popoli è arrivata dalla Calabria ai confini della Terra dopo un lungo travaglio di venticinque secoli. I Greci si riempivano la bocca e morivano anche per la libertà, ma lo facevano per la libertà loro e delle loro famiglie, non certo per gli schiavi e le schiave che c’erano in Grecia. Questa ambiguità dell’etica greca è testimoniata da due filosofi ritenuti i più grandi dell’umanità: Platone e Aristotele. Platone conosceva benissimo la Magna Grecia, dove vigeva la libertà di tutti, perché egli aveva frequentato per sette anni la Scuola Pitagorica di Crotone, riaperta nel 444 a. C. per volere di Pericle: in quella Scuola la libertà era il fondamento dell’etica. Platone tuttavia affermò che… gli schiavi erano necessari, altrimenti chi avrebbe fatto i lavori? Aristotele andò oltre, sostenendo che l’etica doveva essere stabilita dai politici! L’etica di quei due cattivi maestri, ricchi e di buona famiglia, era esattamente contraria a quella praticata dai pitagorici.

             Il popolo sconosciuto dei Lacini

Nelle opere degli antichi autori greci e romani, come anche negli usi e nei costumi dei popoli preitalici e italici, ci sono riferimenti chiari a questo popolo. In sintesi possiamo dire che i Lacini abitavano tutto il Golfo di Squillace e l’entroterra, da Locri a Capo Lacinio vicino a Crotone, e soprattutto l’altipiano fertile della Lacina, così chiamata ancora oggi, sito tra Serra San Bruno e la costa jonica. Per maggiori dettagli di questa mia ricerca, guardate il documento allegato:

https://drive.google.com/file/d/16pkubx65S0eP0FHP1vAG4eWevBaL7Laa/view?usp=sharing

 I Lacini erano un popolo gilanico che da millenni abitava la Calabria, la quale, a partire dai Greci, ha subito venti occupazioni e dominazioni straniere: 1 - i Greci; 2 - Alessandro il Molosso, re dell'Epiro; 3 - suo nipote Pirro con gli elefanti; 4 - i Bruzi; 5 - i Siracusani con Dionisio; 6 - i Cartaginesi con Annibale, acquartierato a Capo Lacinio per otto anni; 7 - Spartaco con gli schiavi; 8 - i Romani; 9 - Alarico con i Goti; 10 - i Longobardi; 11 - gli Arabi; 12 - i Bizantini; 13 - i Normanni; 14 - gli Svevi; 15 - gli Angioini; 16 - gli Aragonesi; 17 - gli Spagnoli; 18 - i Borboni; 19 - i Francesi; 20 - i Piemontesi.

La Calabria, però, non ha mai fatto guerra a nessuno, una particolarità che Fra Salimbene da Parma (1221-1288), seguace di San Francesco d’Assisi nell’abito ma non nel cuore, attribuì a viltà, perché non erano insorti in armi contro i Normanni. In realtà i Calabresi non avevano e non hanno la guerra nell’anima, a differenza degli altri abitanti dell’Italia di origine indoeuropea, come i Latini, gli Etruschi e i Galli.

           La nascita dell’Italia  

Lo storico Antioco di Siracusa nel V sec. a. C. scrisse della Prima Italia (Prote Italìa), nata nell’istmo Squillace-Lamezia intorno al 1500 a. C. Non dobbiamo pensare che l’Italia sia nata confinata dentro l’Istmo, ma in un territorio più ampio di cui l’Istmo costituiva l’asse mediano. Ciò è avvenuto a causa del clima più piovoso per lo scambio termico dei venti che attraversano e temperano l’Istmo attraverso la Gola di Marcellinara: il ponente da ovest e lo scirocco da sud, per cui si potrebbe dire che l’Italia è figlia del buon vento. Ciò ha generato il fenomeno raro della fruttificazione perenne: ancora oggi non c’è in quella zona un solo mese senza frutti.

D’altra parte, le minuziose ricerche condotte dal tedesco Prof. Armin Wolf nel suo importante libro Ulisse in Italia (2021), dimostrano che la Terra dei Feaci, narrata da Omero nell’Odissea, è quella vicino al fiume Làmetos, che sbocca nel Tirreno all’altezza dell’odierna Lamezia. Lì vicino viveva un popolo di Enotri, arroccati nell’odierna cittadina di Tiriolo (CZ), da dove si vedono i due Mari Jonio e Tirreno, come espressamente riporta lo stesso Omero.

             Chi era Italo

Tutti gli storici antichi concordano che Italo era uno degli Enotri della colonizzazione arcaica, il quale doveva essere figlio di un greco enotrio e di una donna del posto. Italo apparteneva dunque a due parentele e a due culture, la greca e la locale, e non gli fu difficile capire che le armi non creavano benessere, mentre i locali vivevano nell’abbondanza con i raccolti dell’agricoltura. Perciò egli decise di unire i suoi Enotri ai preitalici, che io ritengo soprattutto Lacini, creando i sissizi (da syn-sitein, mangiare insieme), banchetti comunitari ai quali gli Enotri portavano il vino e i Lacini il pane. I sissizi erano dunque banchetti per unire due popoli, sissizi che poi Italo allargò, unendo con la persuasione, e a volte con la forza, i popoli circonvicini, ai quali diede il suo nome: Italìa, Italia.

Il termine italo si trova sia in latino: vitulus, che in greco: ìtalos. In ambedue le lingue, il termine significa giovane toro, torello, animale totemico dei Lacini. Quel nome era anche dato a maschi greci e a maschi romani come Vitellio, nome che fu anche di un imperatore. Ai tempi della colonizzazione classica poi, furono chiamati Italioti i nati da coloni greci e da donne italiche, che a loro volta erano nate dall’unione degli Enotri e altri coloni con i Lacini e altri popoli autoctoni.

Ovviamente la grande maggioranza della popolazione attorno all’Istmo era di origine lacina o comunque locale, per cui il modo di vivere, l’etica, rimase sostanzialmente quella neolitica. I coloni greci dovettero adattarsi a quell’etica, ma non rinunciarono alle loro armi e alle guerre che tanto amavano, e combatterono molte guerre tra le poleis, come fece Crotone contro Locri e Sibari, che distrusse nel 510 a. C.

In quello scenario complicato sbarcò a Crotone un ragazzino di forse dodici anni di nome Pitagora, venuto dall’isola greca di Samo con suo padre Mnesarco, che produceva e vendeva sigilli per anelli incisi su pietre dure o preziose, molto richiesti dai ricchi coloni. Pitagora rimase colpito dal clima di libertà di Crotone e, tornato in patria, si dedicò per cinquanta anni allo studio e ai viaggi in Grecia, Siria, Libano, Israele, Egitto e Mesopotamia. Alla fine, però, decise di voler vivere in un posto dove la dottrina da lui elaborata fosse ben accolta, e nel 530 a. C., all’età di circa sessanta anni, ritornò a Crotone.   

 Nascita della Magna Grecia   

La mente di Pitagora aveva grande capacità di analisi e sintesi e nei suoi lunghi soggiorni tra i popoli stranieri egli cercò di capire quale fosse il miglior modo di vivere. Era così arrivato a delle conclusioni originali e coniò il termine di filosofia, amore per la sapienza, che per lui non era un insieme di nozioni astratte, ma qualcosa che dava sapore alla vita, aiutava a vivere bene. Perciò diceva: L’uomo è a sé stesso causa del proprio bene e del proprio male: tutto dipendeva dall’agire umano.

Io ho chiamato la sintesi della sua dottrina Il Pentalogo di Pitagora, costituito da cinque principi, immutabili come le regole della matematica e della geometria, che ho sintetizzato così:

                                        Felicità + Pace =

Libertà + Amicizia + Comunità di vita e di beni + Dignità della donna + Vegetarismo.

 Al suo arrivo a Crotone, Pitagora fu accolto con grandi onori ed ebbe molti seguaci, ma la comunità di vita e di beni che egli voleva attuare, esigeva che i ricchi si spogliassero delle loro ricchezze, cosa che non piaceva affatto alla classe abbiente di Crotone. Porfirio, il filosofo molto apprezzato del III sec. d. C., lo stesso che scrisse le Enneadi del suo maestro Plotino, scrisse una Vita di Pitagora fortunatamente giunta fino a noi, nella quale egli scrisse di duemila barbari che con i loro capi, donne e bambini vennero dai villaggi circonvicini per ascoltare Pitagora a Crotone. La parola barbaro indicava uno che parlava una lingua sconosciuta, balbetta.

Con loro meraviglia, quei barbari Lacini, forse aiutati da nipoti o parenti italioti che facevano da traduttori, si sentirono dire dal più famoso sapiente dei Greci che il modo di vivere giusto era quello che loro stessi praticavano. Elessero allora Pitagora loro legislatore e decisero di non fare nulla al di fuori di quanto egli comandava. Costruirono un nuovo villaggio sulla collinetta di Laureta che arriva al mare, sita tra Crotone e Capo Lacinio, dove ebbe sede la sua Scuola e dove Pitagora visse tra i Lacini assieme ai suoi allievi, giovani uomini e donne, venuti da Crotone e anche da lontano.    Scrisse Porfirio che il nome di Magna Grecia dato a quell’Italia non derivava dallo splendore delle poleis né dall’abbondanza dei raccolti, ma era dato unicamente per due motivi: l’ammirazione della vita irreprensibile dei pitagorici e l’altezza della loro speculazione filosofica. Il prestigio dell’Italia diventò così alto che tutti volevano farne parte, e così il nome di Italia si espanse dalla Calabria a tutta la penisola.

Ricapitolando: il popolo autoctono dei Lacini, unendosi ai Greci, generò la Prima Italia, la quale per opera dell’etica predicata e praticata dai pitagorici, fu chiamata Magna Grecia, che diffuse nel mondo l’etica universale di rigore matematico, sempre valida per le persone, la società, le religioni, la politica e la finanza. È la stessa etica che abbiamo ripreso con la fondazione nel 2015a Crotone della Nuova Scuola Pitagorica, etica che cerchiamo di diffondere per il bene dell’umanità.  

             I sommovimenti antipitagorici

I giovani pitagorici di Crotone cercarono di influenzare le scelte politiche della loro polis, ma ciò portò a una insurrezione capeggiata da Cilone, un ricco avversario dei pitagorici. Molti di essi furono uccisi e la loro sede fu data alle fiamme, Pitagora si salvò a stento con la sua famiglia, cercando asilo a Caulonia e Locri, che glielo negarono per paura di Crotone. Riparò a Taranto, ma anche lì ci furono sommovimenti contro i pitagorici ed egli se ne andò a Metaponto, dove tenne scuola per alcuni anni. Anche lì ci fu un sollevamento contro di lui che si rifugiò nel Tempio delle Muse, dove come supplice non poteva essere catturato. Pose allora fine alla sua vita nel 500 a. C. all’età di novanta anni, perfettamente lucido dopo quaranta giorni di volontario digiuno.

Sembrava la fine, ed era invece l’inizio di un ciclo che diffuse la dottrina pitagorica nel mondo antico, arrivando fino a noi. Questa mia lettera si è forse allargata troppo, ma per capire la Calabria di oggi è indispensabile conoscere la sua storia passata, almeno per sommi capi. Per i dettagli sul pitagorismo e sui legami tra mondo ebraico e Gesù, la cui etica è identica a quella di Pitagora, guardate il mio libro Il Pentalogo di Pitagora, disponibile in rete:

https://drive.google.com/file/d/1C1Yaeh7y233RenHQJDKhvM4xfIwSh7-B/view?usp=sharing

 Queste notizie servono a darvi un’idea di quante vicende fondamentali dell’evoluzione umana si siano svolte in Calabria, la terra che oggi tutte le statistiche classificano come l’ultima d’Europa per la qualità di vita.

             Il fatale arrivo dei Normanni

L’arrivo del cristianesimo in Calabria migliorò le attese degli abitanti, perché aggiunse la prospettiva della vita eterna al pitagorismo, che insegnava invece il ciclo incessante delle reincarnazioni, la metempsicosi. Poi, intorno all’anno Mille i Normanni, originari della Scandinavia ma da secoli stanziati in Normandia, conquistarono facilmente il Sud e la Calabria, dove stabilirono la loro capitale a Mileto (RC), che poi trasferirono a Palermo nel 1101 alla morte del Granduca Ruggero d’Altavilla.

I Normanni erano cristiani discendenti da popoli nordici feroci come i Goti, gli Ostrogoti e i Longobardi. Invece i Calabresi erano cristiani di origine magnogreca, cioè pitagorica, la cui etica vietava perfino la detenzione e l’uso delle armi e vietava l’uccisione degli animali. Pitagora, difatti, stava lontano da macellai e cacciatori e ammoniva:

La pace nasce dal rispetto della vita degli animali. Se non osi uccidere l’animale, mai ucciderai un uomo.

 I Normanni instaurarono nel Sud Italia il regime feudale con la servitù della gleba, l’esser legati come schiavi alla zolla di terra: in Calabria fu ridotto in schiavitù il popolo che aveva creato e diffusa la libertà di tutti.   

I Calabresi e tutto il Sud furono gravemente tassati dai Normanni per edificare fastose cattedrali e per preparare armi e flotte per la Prima Crociata, per la quale il papa francese Urbano II nel 1192 venne a Mileto per concordare i termini della spedizione col Gran Conte Ruggero. Questi prese parte alla conquista di Gerusalemme nel 1099, e tornò con una reliquia preziosa: un dito del Protomartire Santo Stefano.  

Questi intrecci complicati mettono in luce un dissidio tuttora irrisolto tra etica e legalità. Dal punto di vista pitagorico, una legge è legale solo se non contraddice i cinque principi del Pentalogo.

Le Costituzioni di Melfi, promulgate nel 1231 dall’imperatore Federico II, nipote del Barbarossa e figlio della normanna Costanza d’Altavilla, erano pitagoricamente illegali, perché affermavano il regime feudale, secondo il quale l’imperatore era padrone assoluto di tutto, mentre duchi, principi, conti e visconti di sua nomina erano signori dei territori loro assegnati e dei popoli che li abitavano. Federico II fu chiamato stupor mundi per la sua vasta cultura, ma andrebbe considerato nella sua duplice formazione: quella pitagorica della matematica, nella quale eccelleva, e quella barbarico-feudale, ereditata dal nonno Barbarossa.

Le invasioni barbariche che disintegrarono l’impero romano non furono solo un fatto del passato: la barbarie da allora è avanzata a dismisura sul principio che uno domina sugli altri, principio da cui derivano tutte le forme di competizione, finanza e le stesse guerre, che esigono sempre vincitori e vinti.

Nella battaglia di Legnano del 1176, la Lega Lombarda vinse contro Federico Barbarossa che voleva imporre il suo dominio sui comuni dell’Italia settentrionale. Quella vittoria fu possibile perché i Lombardi, discendenti dai Longobardi, erano gente d’armi e facevano continue guerre tra di loro: Milano contro Como, Lodi, Pavia, Cremona e altri comuni. Lo stesso vale per le guerre del centro Italia, durate fino a tutto il Rinascimento, che videro infinite lotte tra Perugia e Assisi, Firenze e Arezzo, Lucca, Pisa e Siena.  

Al Sud il regime feudale sarebbe durato fino all’annessione al Regno d’Italia nel 1861, quando fu abolito il regime borbonico che lo sosteneva, ma nei fatti esso sopravvisse in parte fino a circa il 1950. Per otto secoli le popolazioni meridionali furono servi della gleba, legati alla terra dei signori che dovevano coltivare senza poterla abbandonare. Dovettero allora scendere a sotterfugi, furbizie, inganni e menzogne per non morir di fame. Era una vita da schiavi, l’unica possibile, che avrebbe spinto il Sud a una grave decadenza e alle varie forme di criminalità che l’affliggono.

Cos’è la calabritudine?

Si dice che è possibile togliere un Calabrese dalla Calabria, ma è impossibile togliere la Calabria dal cuore di un Calabrese. Sembra solo una bella frase, ed invece tutti i Calabresi, me incluso, sentiamo un legame profondo e indistruttibile con la nostra terra: è la calabritudine. Ho conosciuto diversi emigrati meridionali che rimpiangevano la loro terra, ma non in maniera così forte e con nostalgia così pungente come i Calabresi, anche quelli che hanno messo su famiglia e vivono economicamente bene. Perché, mi chiedevo, rimpiangere una terra che hanno dovuto lasciare, piena di problemi ancora oggi, dove la vita quotidiana è faticosa e problematica e non offre prospettive valide ai giovani che devono emigrare a migliaia?

Questa domanda merita una risposta alla quale ho lungamente riflettuto e che ora espongo. La Calabria ha subito una decadenza inarrestabile che dallo splendore della Magna Grecia l’ha portata alla miseria del presente. Io penso che il principale dovere di ogni persona sia quello di vivere bene e, se ciò non è possibile, bisogna allora cercare di capire e superare le cause del viver male.  

La Calabria mi sembra un secchio, dentro cui i passanti buttano rifiuti, e poi tutti si sdegnano che quel secchio è pieno di immondizie. Venti invasioni straniere possono essere considerate un accanimento del destino, ma possono anche essere viste come un fenomeno necessario per aprirci gli occhi e farci capire i meccanismi dell’evoluzione umana. Sembra un’ipotesi bizzarra, ma i fatti confermano come la decadenza possa essere un fatto provvidenziale. Goti e Visigoti, qui arrivati dai paesi scandinavi, erano barbari tra i più feroci e violenti: come mai ora la Scandinavia è abitata da popoli tra i più civili al mondo? Questo è successo perché alla fine essi hanno adottato un modello di vita comunitario che aiuta tutti e non esclude nessuno, il modello etico che qui era praticato.   

La calabritudine è il richiamo di un lontano passato, esistito ma dimenticato, che ci mette in comunicazione con lo spirito dei nostri antenati, il loro modo di pensare, di sentire e sperimentare la vita e il mondo, gli uomini e gli dei: quello che Jung chiamò inconscio collettivo.

 

I Calabresi Custodi del Sogno  

Per sogno intendo il bel sogno di un mondo felice, come fu la Calabria prima dell’arrivo dei Greci. Un mondo ben diverso da quello di oggi, nel quale viviamo sotto l’incubo che tutto possa finire con una guerra nucleare. Religioni e politica non sono riuscite a pacificare il mondo, anzi lo hanno spinto verso la violenza: negli ultimi sei mila anni i maschi di stampo indoeuropeo hanno sempre comandato, facendo proliferare la violenza con guerre, uccisioni, genocidi e distruzioni. Ma hanno fatto di più, hanno ucciso la speranza di un mondo pacificato e, senza speranza, si vive e si muore disperati.

Cambiare questa realtà sembra impossibile, ma è proprio qui che la Calabria appare come àncora di salvezza per l’umanità. Quest’affermazione audace è supportata dalla cultura calabrese, che nei millenni è stata sempre utopica, cioè ha immaginato e prospettato un mondo migliore: Cassiodoro, Gioacchino da Fiore, Tommaso Campanella e Bernardino Telesio, sono grandi autori calabresi che scrissero di un mondo migliore che doveva realizzarsi. Questa cultura sistematicamente ottimista emerge più chiara se la paragoniamo a quella della vicinissima Sicilia, dove i grandi autori come Capuana, Verga, De Roberto, Pirandello e Tomasi di Lampedusa sono irrimediabilmente pessimisti.  

Di conseguenza, il problema non è di adeguare la Calabria al mondo moderno, ma, al contrario, adeguare la Calabria e il mondo moderno all’etica universale che qui si era formata e che ora da qui risorge per pacificare le persone, la società e i popoli. Dalla Calabria nasce un sommovimento mondiale delle coscienze per portare ai posti di comando le donne, le madri e gli uomini che la pensano come le donne, donne che non hanno mai fatto guerre, ma hanno sempre aiutato e protetto la vita in ogni situazione. Senza il sogno di una vita felice e di un mondo in pace non si attiva il desiderio di realizzarlo: l’evoluzione umana rimane bloccata e tende pericolosamente verso l’involuzione, come sta succedendo sotto i nostri occhi.

             Esortazione e invito al Raduno a Crotone nel 2025

Questa lettera è iniziata rivolta ai Calabresi, non solo ai due milioni di residenti in Calabria e al mezzo milione di nati in Calabria e residenti altrove, ma anche ad alcuni milioni di figli e discendenti di Calabresi emigrati, quella che io chiamo la Grande Calabria. La disseminazione dei Calabresi nei continenti non fu voluta da un avverso destino, ma faceva parte di un ampio disegno, voluto da quella che i pitagorici chiamavano Theia Prònoia (Divina Preveggenza), affinché essi fossero il lievito della nuova Civiltà Sissiziale, che verrà da dove uno meno se l’aspetta: dalla Calabria.

Questa lettera è rivolta in realtà all’umanità intera, alla quale abbiamo il dovere di dire un’amara verità. I maschi hanno fatto e fanno le guerre per il piacere di distruggere e uccidere: un bisogno irrefrenabile, per soddisfare il quale trovano sempre soldi senza limiti. I conflitti di Medio Oriente e Ucraina-Russia confermano che ammazzare o farsi ammazzare è bello, degno e glorioso, anche se esige la propria morte.  

Il sommovimento pacifico che noi proponiamo è il più grande e affascinante della storia, e mira a portare la pace nel mondo col solo mezzo che può realmente realizzarla: la distruzione di tutte le armi, senza le quali le guerre non si possono fare.    

A questo fine la Nuova Scuola Pitagorica propone un raduno a Capo Lacinio, dove Pitagora parlò di pace e vita felice. Al raduno, che si terrà nella primavera del 2025 in data che indicheremo, sono invitati tutti, nessuno escluso.

Intorno al 1990 Padre Paisios, un monaco greco-ortodosso del Monte Atos, disse:

Apò tin Kalavrìa to fos: dalla Calabria verrà la luce.

Quel monaco non mise mai piede in Calabria, ma era probabilmente dotato di quell’intelligenza spirituale, come la definì Gioacchino da Fiore, quell’intelligenza sovrana, capace di illuminare gli abissi della storia per aiutare l’umanità ad allontanarsi dall’inferno presente e andare verso orizzonti di felicità e di pace.

Riaccendere la speranza e adoperarsi per un mondo migliore è il compito essenziale di tutti, soprattutto dei Calabresi, i quali hanno grande bisogno di recuperare la fiducia in sé stessi: gli ultimi saranno i primi.

Evoè, evviva.

 Salvatore Mongiardo

Scolarca della Nuova Scuola Pitagorica

Ottobre 2024

348 7820 212

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LETTERA AI CALABRESI PER LA PACE NEL MONDO

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domenica 8 settembre 2024

VOGLIAMO VIVERE

 Care Amiche e cari Amici,

vi comunico che il 2 settembre 2024 è uscito il mio ultimo libro che vi farà sognare:

VOGLIAMO VIVERE – BASTA ARMI, BASTA GUERRE.

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A Soverato presso la Libreria Incontro.

 

                                                                

sabato 10 agosto 2024

'A CUMPRUNTA di E. ARMOGIDA

'A Cumprunta

(brano tratto dalla lirica “C’era ‘na vota\ …’a rota d’o vrascìari”)

 

                                                                                                                                                                                                                                  di Enrico Armogida

 

Cc'era na vota\ 'a "rota" d'o vrasċìari ...

ed ogn'annu - sempa guala! -

fin'a Pasqua duràva...:                                                                                                                 'A dominica 'e Pasqua:

quand'ancòra, ogni tantu,

na cucuḍḍijàta ciciarìgna

'a vigna 'e Tralò e dde Niforìu                                             

'e jancu pinneḍḍàva

e, prima d'a Cumprùnta,                                                                  

supa i casi d'o Castìaḍḍu ntinnàva.

E ll'aggìanti, tutti a ffesta attillàti,                                                                                   l'aggìanti attillati de' mugnani

a mmurràta si ricojjìanu,

e dde' strati o de' mugnàni

guardàvanu a Vvitu Varànu,                                                                                                       Vitu Varanu e ll'angialìadri         

chi, cu i mazzùali ar’i mani,

sonava ‘e prèscia u tambùrru,

e, currìandu davanti

ar’u standàrdu d'o Rosàriu,

nzema all'angialìaḍḍi scarzi

(chi seguìanu cull'ali janchi ampràti

e, sup'a testa,

na curùna 'e curgìajji jhurùti),

portava ar'a Madònna a lluttu

l’annunziu d'o Cristu risurcitàtu

chi a Ggalilèa l’aspettàva.  

 

E a mmenzijùarnu, - quandu                                                                                        

i Cungregànti chi i “vari” portàvanu,

(dùappu l'ùrtimu 'nchinu)

p'o Castìaddru sbiḍḍàvanu -

i fùrgula appicciàvanu u cìalu;                                                                                      

e Ccialamìda u sagrastànu

mani e ppeda i battàjji pistàva, 

er'u campanàru d'a Chjìasi,                                                                                                       

(p'o prìaju d'a festa)

quasi quasi scoppiàva...

 

 

 

'A Cumprunta” a  S. Andrea Apostolo dello Jonio:

frutto di sincretismo religioso fra una remota liturgia pagana

e una più recente tradizione cristiana.

 

Con l'ingresso della primavera, nella ridente collina di S.Andrea sullo Ionio, la prima importante manifestazione di religiosità popolare è quella della tradizionale "Cumprunta" (quella cioè della "gara per l'incontro gioioso" tra la Madonna in lutto e il Figlio risorto), che puntualmente viene disputata ogni anno - tra due gruppi di Confratelli della Congrega del SS. Rosario - a mezzogiorno della Domenica di Pasqua e che - a distanza di 12 ore - segue alla "rappresentazione" della Resurrezione di Cristo, la quale avviene, invece, a mezzanotte del Sabato santo - al momento del “Gloria in excelsis Deo” - durante la solenne Messa “cantata” che il Parroco celebra con la partecipazione di tanta gente.

Tale manifestazione conclude il ciclo dei vari riti liturgici che riempiono la Settimana santa. Tuttavia, prima della Riforma liturgica post-conciliare, - quando la processione del Cristo morto per le strade principali del Paese si faceva una prima volta la sera di Giovedì santo, con una suggestiva fiaccolata di torce e “maravàschji[i] accesi, ed era ripetuta poi una seconda volta la mattina del Venerdì di Passione, con l’accompagnamento della statua della Madre (“addolorata” per l’ultima - e la più atroce - delle spade profetizzate da Simeone) - l'evento della Resurrezione (“‘a Glùaria”) si celebrava il Sabato mattina, durante la Messa "cantata" delle ore 8,00, mentre "'a Cumprùnta" si svolgeva a mezzo-giorno della Domenica di Pasqua, anche se era da tutti e da sempre chiamata “’a cum-prunta ‘e Galilea” - come quella di Soverato - per richiamare alla memoria collettiva l'incontro avvenuto tra la Madonna e il Figlio qualche giorno dopo la sua Resurrezione nella regione settentrionale della Palestina chiamata Galilea.

Il termine “cumpruntàra” si ritrova nel proverbio dialettale ancora in uso: “munti cu munti ‘on si cumprùnta\, ma frunti cu frunti sì”, il quale significa che “gli oggetti inanimati non hanno motivi di discordia, invece gli esseri animati sì, e possono risolverli discutendo insieme”.

Tale vocabolo inizialmente indicava “la volontà e l’atto – che si verifica tra due persone o gruppi di persone - di sedersi insieme di fronte per esternare le proprie rimostranze e ragioni, nella convinzione, anzi certezza, che il confronto delle idee ed il metodo della discussione siano utili a tutti”. Ma successivamente, così come il termine italiano “confronto” - nel mondo sportivo – è venuto a significare “incontro e gara” insieme[ii], il dialettale “cumprùnta” ha assunto anch’esso un valore polisemico, alluden-do sia – chiaramente - all’ “incontro gioioso che avviene (correndo, quasi gareggiando a chi arrivi per primo)”, tra la Madonna (trafitta dal dolore per la recente crocifissione del Figlio) e il Cristo (già risorto, il quale - prima del suo ritorno definitivo alla Casa celeste - rimane ancora sulla terra altri 40 giorni, fino al giorno dell’Ascensione), sia - velatamente - ai vari "dissapori, rivalità o rancori” che per motivi sociali o personali si accendevano spesso tra le famiglie andreolesi e si trasmettevano poi di padre in figlio, in forma quasi ereditaria, anche a livello di Congreghe religiose, che si ritrovano schierate alcune (Rosa-rio e Immacolata) dietro la statua della Madonna, altre (SS.Sacramento e S.Andrea) dietro quella del Cristo[iii].

      Benchè tale manifestazione si svolga in vari altri paesi circonvicini del litorale ionico, “’a Cumprunta” di S.Andrea rimane uno spettacolo unico, tanto per la particolare bellezza della statua del Cristo, (scolpita con taglio michelangiolesco, con lo sguardo fulminante e il braccio destro vittoriosamente proteso in avanti, nell'atteggiamento trionfante e glorioso di chi - col sigillo della Croce, impresso nello stendardo rosso che saldamente impugna nella sinistra - ha vinto da poco il peccato e la morte ed ha redento così il mondo) e la leggiadra imponenza della Madonna del Rosario (rivestita per l’occasione con la veste bianca in broccato d’oro[iv] e con l’abituale manto azzurro stellato), quanto per la trepida apprensione con cui tutti gli astanti partecipano alla "rappresentazione", la quale, (oltre ad esprimere il bisogno di perpetuare una tradizione religiosa molto cara e molto antica), si trasforma per taluni in una piccola occasione di mondanità, in cui primaria preoccu-pazione è quella di trovare la postazione più adatta per assistere nel modo migliore.

     La manifestazione è organizzata dalla Confraternita del SS. Rosario e si svolge nello splendido Corso Umberto I, chiamato abitualmente dalla gente del luogo Pian Castello, una lunga e larga Piazza, acquistata dal Comune verso i primi anni del Novecento e tutta lastricata dagli scalpellini locali in “pietra granitica abilmente spaccata e spianata” (“u basulàtu ‘e petrelli”).

      Essa si apre verso le 11:00 del mattino, immediatamente dopo la conclusione della Santa Messa delle ore 10 ("’a Missa cantata"), quando la statua trionfante del Cristo, e quella della Madonna del Rosario, tutta chiusa ancora in un lungo manto “nero”, escono dalla Chiesa sui loro baldacchini (“i vari”), dirigendosi per zone opposte del paese, la prima verso Sud-Est e l'altra verso Nord-Ovest.

Ad uscire per prima - in forma solenne - è la statua del Cristo, ch’è preceduta dagli uomini che portano gli stendardi e le croci delle Congreghe, dai rispettivi “confratelli”[v] (tutti vestiti di camice bianco e mantellina colorata [“mozzetta”], i quali cantano Salmi ed Inni dell’Ufficio) e dal corpo ecclesiastico (formato dal parroco, da un sacerdote “a latere” e da vari chierichetti), ed è seguita dal complesso musicale e dalla folla dei fedeli riuniti in processione. Ma il percorso seguito dal corteo è diverso da quello di tutte le altre proces-sioni religiose dell’anno, perchè - invece di salire - scende dal Palazzo dei Parise e, attraverso la lunga via Regina Margherita, giunge alla piazzetta della casa del defunto Sesto Bevivino e da lì prosegue verso l'Orfanotrofio delle Suore Riparatrici, per arrivare infine - nel suo punto più basso - al piazzale antistante il sagrato della Chiesa del patrono S.Andrea. Da qui, attraverso via Vittorio Emanuele il corteo sale e, deviando a sinistra verso l’ex-negozio di tessuti dei Carioti, arriva a Piazza Marconi (a Mmalajìra, davanti l’ex Municipio comunale), e poi, procedendo sempre verso l’alto - lungo via Regina Elena – si ferma davanti all’ex-negozio di suola e pellame di Nicola Samà “u briganti”, ove sosta per qualche tempo prima d’imboccare la vicina Piazza per l’incontro finale.

Una decina di minuti dopo esce dalla Chiesa anche la statua della Madonna, che, ancora tutta sconsolata e rivestita a lutto, procede per le strette viuzze del paese in forma privata, sola e disadorna (priva cioè degli abituali gioielli d’oro, quali orecchini e collana), preceduta solo da un ragazzo che porta la croce, da un sacerdote e da pochi fedeli. Essa, immettendosi nell’attuale via Mario Pagano, procede a destra lungo la via arc. Antonio Mongiardo, arriva a Largo Alfonso Cosentino e da lì imbocca la salita del II° tratto di via arc. Ant. Mongiardo, e si ferma alla confluenza con via Trento (davanti alla casa di Peppe Dominijanni “u ciuffu”), in attesa che i 3 “angeletti” (i quali, tutti ricoperti di bianco - camice, ali, corona e calze - seguono di corsa il passo e il rullo sempre più concitato del tamburinaio) portino alla Madonna l’avviso che il Cristo è ormai pronto davanti alla Torre dell’Orologio.

Intanto il Pian Castello, luogo dell’incontro finale, pullula di gente tutta elegantemente vestita a festa: ragazzi e ragazze, bambini[vi] e anziani, emigrati e forestieri si affollano “a mmurràta” nelle case di parenti o conoscenti per assistere alla “Cumprunta”; e, per avere una buona visuale, si sporgono dai balconi e dai "mugnàni" delle case che costeggiano la Piazza; oppure si assiepano lungo i due lati del Corso e tra loro fanno ressa a spintoni, sicchè la Guardia comunale e i Carabinieri del luogo faticano a mantenere l'ordine e a lasciar libera la strada per la "corsa" imminente.

Il momento più emozionante si avvicina con l’avvicinarsi del mezzogiorno: alle ore 11:55, le statue si trovano già alle due estremità della Piazza, situate - il Cristo - all’al-tezza del portone della Chiesa Matrice e - la Madonna – all’imbocco superiore della Piazza; il Parroco e i chierichetti si sistemano verso il centro di essa, là dove si presume debba avvenire l'incontro; e gli stendardi e i confratelli delle Congreghe si pongono ai due lati del Pian Castello, mentre i 3 “angioletti” corrono frettolosamente nei due sensi, lungo la Piazza gremita di folla, e - mediante successivi “messaggi” che con le loro “visite”[vii] recano a ciascuna delle due statue (alla Madre e al Figlio) - favoriscono il loro “incontro”, che diventa alla fine una “celere corsa”, dettata dalla piena dei sentimenti che pulsa all’unisono nel loro cuore.

 Infatti, i reggitori delle statue[viii], i quali un tempo portavano ai piedi solo calze di “àsili[ix] per evitare che durante la corsa scivolassero sulla pavimentazione di “petrèlli” – hanno già posizionato la Madonna e il Cristo in modo tale che i rispettivi “centri d’avanti” – come son chiamati i reggitori centrali – possano comunicare tra loro mediante un opportuno cenno del capo, e coordinare così i tre inchini[x] delle statue, che fanno susseguire a breve distanza di tempo. “Pronti?… Calàmu!”[xi] è il grido scandito ogni volta dal “centro d’avanti” della statua del Rosario, il quale, piegando e rialzando sincronicamente il capo, manda al “centro d’avanti” della statua del Cristo il segnale previsto, e – ad inchino simultaneo effettuato (“calàta”) - fa avvicinare ogni volta la propria statua di due o tre passi avanti.  

A mezzogiorno in punto, quando la Madonna è ormai all'altezza dell'Olmo secolare delle Tre Fontane e il Cristo più o meno a quella dell’ex-farmacia Samà, il centro d’avanti della Madonna, appena riceve il “Pronto!” dalla persona addetta a sfilare il velo “nero” della statua, quasi automaticamente compie l’incurvatura del capo e, fatto in fretta - insieme agli altri compagni - il terzo inchino, scatta in avanti e inizia la “gara” finale verso il centro della Piazza: "‘A Madonna u rèscia!", (cioè "La Madonna provveda al buon esito"), è l'augurio segreto comune, per un percorso che – pur essendo relativamente breve - ai reggitori e agli astanti sembra durare un’eternità, per le difficoltà oggettive che il basolato della piazza presenta e per i gravi imprevisti che il trasporto affrettato delle statue può comportare[xii].

Al punto d'incontro, che risulta all’incirca all’altezza del Tabacchino Lijoi, le due statue si arrestano, con un ultimo inchino frontale si salutano, e poi sono adagiate a terra, affian-cate e rivolte entrambe verso la Chiesa. Contemporaneamente, dal Palazzo Jannoni son librate a volo due bianche colombe, simbolo di quella giornata di pace ed amore che la Festa vuol significare; e, mentre la gente, che ha assistito con apprensione alla scena, piange commossa e batte le mani per l'incontro felicemente avvenuto, il complesso ban-distico intona una marcia trionfale, le campane della Chiesa squillano a distesa e lo scoppio dei fuochi d'artificio dà l'annuzio della conclusione delle festività pasquali.

In questo clima di generale letizia gli addetti della Congrega rimettono alla Madonna gli abituali gioielli, mentre le persone si scambiano (o si rinnovano) gli Auguri di Buona Pasqua con i parenti, amici e conoscenti che incontrano, scattano delle foto o fanno riprese cinematografiche, e pongono la loro generosa offerta nella guantiera della Con-grega, o direttamente attaccano alle fasce di seta celeste delle due statue la moneta cartacea più pesante.

La cerimonia termina col rientro delle statue in Chiesa (anche questa volta prima quella del Cristo e poi quella della Madonna, introdotte col viso rivolto verso l’esterno e accompagnate dalla banda musicale e dai fedeli), e poi col rapido diradamento della gente, che abbandona la Piazza e rientra a casa per assidersi a mensa e consumare nell’intimità della famiglia il tradizionale pranzo pasquale.

 

Certo, la "Cumprunta" è una festa le cui origini nessuno più ricorda né riesce a rintrac-ciare in documenti storici, ma che certamente sono molto remote.

Infatti, prima della statua del Cristo attuale, sappiamo che c'era quella "d'o Cristu “vìacchju"; statua che - secondo l’asserzione del prof. Bruno Voci[xiii] - fu portata a S.An-drea tra il 1848 e il 1868 dall'arciprete Raffaele Spasari, nativo del vicino paese di Bado-lato, e che, caduta in disuso dopo l’acquisto del Cristo “nuovo” (1928), rimase per lungo tempo accantonata nella Chiesetta di S.Rocco e alla fine fu fatta bruciare dal defunto arciprete don Francesco Cosentino (1908-89) nella villetta su cui sorge la Chiesa del patrono S.Andrea.

Ed anche Saverio Mattei, nella II° metà del Settecento, ricorda nella sua Opera che “duravano…a’ giorni suoi – a dispetto di tanti savi provvedimenti de’ Vescovi e de’ Pontefici – alcune teatrali processioni della Passione,…e le feste liete Pasquali, in cui facevan correre le statue qua e là della Vergine, di S.Giovanni, della Maddalena, e di Gesù Cristo, con mille comparse, che destano il riso nella genta culta e la divozione nel popolo rozzo e ignorante[xiv].

Il prof. De Stefano, più che il problema cronologico, si è posto quello della genesi religiosa della Confronta e, dopo aver un po’ affrettatamente asserito che "nei vangeli canonici non troviamo l'incontro di Cristo risorto con la Madre", ha pensato di dare una risposta facendo riferimento al Vangelo apocrifo di Gamaliele, ov'è attestato "il lamento della Madonna presso il sepolcro vuoto del Figlio, che riconosce solo in un secondo momento"[xv].

In realtà, però, la nostra “Cumprunta” non è espressione di lutto per la morte già avvenuta di Gesù, ma manifestazione di gioia per la resurrezione insperata di Cristo, alla quale neppure alcuni discepoli in un primo tempo credettero (v. Mc. 16, 10-13); tant'è vero che "la gara per l’incontro" delle due statue inizia solo dopo che una persona della Congrega sfila dalle spalle della Madonna il manto nero ch'ella ancora porta in segno di dolore e di lutto.

D'altra parte, la nostra "Confronta" fa esplicito riferimento a ben 3 passi del Vangelo di Matteo: per la precisione

      - al cap. 26,32, in cui Gesù, subito dopo la cena serotina di Giovedì santo, predice ai discepoli: "dopo la mia resurrezione, vi precederò in Galilea";

-  al cap. 28,7 in cui l'angelo - alle donne ch'erano andate a visitare il sepolcro la mattina di Domenica - dice:"E' risuscitato dai morti, e ora vi precede in Galilea; là lo vedrete";

-  e al cap. 28,8 in cui Gesù in persona, dopo la sua Resurrezione, appare alle donne e le ricuora, ripetendo la stessa cosa:"Non temete; andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea e là mi vedranno".

Questa funzione liturgica, comunque, - come ha acutamente intuito il nostro caro Sal-vatore Mongiardo - s'innesta – (dilatandone ed elevandone il significato e il valore, come in tanti altri fatti religiosi: vedi le varie basiliche cristiane ricavate da antichi templi pagani o le feste natalizie legate a quelle dei Saturnali romani) - in un remoto mito greco, quello di Demetra e Persefone[xvi] (in latino = Prosèrpina), ed è l'effetto - nel tempo - della cristianizzazione sincretistica di una antichissima vicenda mitologica pagana che si ritrova nell'Inno a Demetra[xvii] (impropriamente attribuito ad Omero), e che certamente era ben conosciuta – e perciò era stata introdotta e poi tramandata anche nelle nostre zone - dai numerosi coloni greci stanziatisi qui nel corso dei secoli.

Tale Inno mira a dare una specie di storia "eziologica" del santuario della città di Eleusi e dei relativi misteri (celebrati in autunno e in primavera, in relazione con la morte e la rinascita del “grano”), ed è incentrato sulla figura della dolente Demetra, "signora delle stagioni e del ricco raccolto" (v. 55 e 492), la quale, "consunta dalla nostalgia della figlia Persefone" (v. 200 e 304), - ["fanciulla fiorente" (v.8) "dalle caviglie sottili" e “dalla vita snella”, che era stata "rapita dal dio Ade" (v. 2)] - e avvolta da un "peplo nero" (182-83), "si lancia come un uccello" a ricercare la figlia "per mare e per terra" (vv. 43-44).

Perciò, Demetra, “l’archetìpica mater dolorosa[xviii], tutta assorbita e chiusa nel suo dolore, abbandona il grande Olimpo, e "la terra non fa più crescere il seme" (v. 306-07) e i raccolti ingialliscono e appassiscono. Allora, Zeus, giustamente preoccupato, dapprima le manda “Iride dalle ali d'oro" (v. 314), ma "non persuade il suo cuore" (v. 324); poi manda a turno “tutti gli dei beati immortali" (v. 325), ma la dea risponde che "non tornerà all'Olimpo fragrante\ e non farà più crescere i frutti della terra\, prima di rivedere con i suoi occhi la bella figlia" (vv. 331-33); alla fine, invia "Ermes, il messagger veloce (¥ggeloj  çkÝj)" (v.407), "perchè convinca Ade con parole cortesi\ a rimandar Persefone dal mondo oscuro" (vv. 336-37). Ade a questo punto acconsente e per due terzi dell’anno restituisce Persefone alla madre, la quale "a quella vista balza come una menade" (v. 385-86), ma per il restante periodo la lascia nel caliginoso mondo sotterraneo come sua consorte e regina degl’Inferi.

Tale mito è ancora adombrato nel nostro termine dialettale "Reserpìna", che tante persone ancora usano per indicare una "donna malvagia, destinata all'inferno"; termine che risulta – a mio parere – dall’ibrida contaminazione popolare di Prosèrpina (che nel senso di “donna cattiva” si usa ancora nel linguaggio parlato a Stalettì) con serpe ed è collegato certo al fatto ch’ella era “regina degl’Inferi”, - nell’arte greca rappresentata spes-so con due serpenti, uno per ciascuna mano (serpenti che dai cristiani furon sempre visti come il simbolo del demonio: v. la statua e il quadro dell’Immacolata!), - ma forse anche al suo fisico "seducente" di "ragazza fiorente (v.8), dalla vita sottile(v.201), che giocava gioiosamente con le Oceanine dall'ampio petto(v.5).

Ma tale mito, oltre che artisticamente avvincente, è molto interessante, perchè ha una stretta connessione col ciclo naturale delle stagioni, in quanto simboleggia il risveglio e ritorno della primavera dopo il letargo dell'inverno, e dà una dimensione nuova ai culti agrari, perchè proietta nell'aldilà - ove regna Persefone - la speranza – (propria di tanti disperati[xix] contadini, in perenne balìa della siccità climatica e delle calamità naturali) - di una vita diversa, beata e imperitura[xx]; e ancor più interessante perché, collegato com’è alla leggenda di un eroe che scende nell’aldilà per rapire la kòre (cioè la fanciulla), “ha a che fare con le idee della morte e della resurrezione, o meglio della salvazione[xxi].

              E il fatto che la rappresentazione si svolga solo qui nel nostro Meridione, nell'antica Magna Grecia, è significativo del fatto che anche noi in gran parte deriviamo dalla stessa  civiltà pagana – quella agricolo-marinara dei Greci -, la quale nel tempo è stata profon-damente cristianizzata (basti pensare all’opera di san Basilio e di Cassiodoro - tanto per ricordare qualche grande nome -, i quali in tale direzione ed in forma indelebile hanno operato nella nostra Calabria).

              Da un punto di vista artistico, la nostra “Confronta” costituisce  un vero “dramma”, che si svolge in un Atto unico e in poche scene significative; scene, certo, non dialogate come nelle “sacre rappresentazioni” del Quattro e Cinquecento, ma simbolicamente e mimeticamente rappresentate, le quali (come le tante pitture sacre che animavano le Chiese del Medioevo) altro non sono che un esplicito ed efficace mezzo mediatico di un particolare messaggio edificante.

              Da un punto di vista culturale, invece, è interessante che in questo “dramma” pagane-simo e cristianesimo s'incontrino e si fondino. Ciò risulta senza ombra di dubbio dal fatto che in entrambe le vicende si ritrovano sostanzialmente 3 personaggi uguali (la madre, il figlio\-a, e l’angelo messaggero), e 3 sentimenti umani basilari, susseguentisi con lo stesso ordine (il dolore straziante di una donna a lutto per la perdita di un familiare, la sua affannosa ricerca in uno stato di profonda afflizione e la gioia finale del ritro-vamento). Sentimenti che, però, nella nostra “Cumprunta” assurgono a qualcosa di più alto, in quanto - impregnati come sono di un sublime valore soprannaturale - vogliono attestare che il Figlio di Dio non è “morto”, ma è vivo e “risorto per noi”, e a confermare - con questo incontro in Galilea – ch’Egli rimane fedele garante di quella promessa di gioiosa speranza che chiude il vangelo di Matteo: “Io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo” (cap. 28,20).

In tal modo appare chiaro anche il senso della storia terrena, la quale non procede né per caso né per salti, ma mostra la sua naturale continuità nella sintesi lenta ma perenne di essere e divenire, di tradizione e innovazione, ed è storia “di sofferenza e di speranza, nella storia di Dio”[xxii], il quale, “umiliandosi nella morte del Crocefisso ed elevando l’uomo nella resurrezione operata in Cristo, crea le condizioni per la comunione con Dio”, e “que-sta assume i tratti di una comunione misericordiosa, incondizionata e universale tra Dio e tutti gli uomini che versano nella comune miseria”[xxiii].

 

NB). Un cordiale ringraziamento, a conclusione, sento di dover rivolgere all’alunna Tiziana Mannello e al cugino Maurizio Lijoi, i quali con la loro generosa disponibilità mi hanno fornito una preziosa mole d’in-formazioni; e un altro all’amico Salvatore Mongiardo, che – con le sue lucide reminiscenze e i suoi repentini sprazzi intuitivi – mi ha offerto lo sprone (anche se mi ha lasciato l’onere!) per la ricerca successiva.

 

 

Bibliografia

 

-    Barbero, Luigi: Civiltà della Grecia antica - Storia letteraria e testi - Mursia - Milano, 1990.

-    Beye, Rowan Charles: Letteratura e pubblico nell’antica Grecia, in “La civiltà greca - Storia e cultura” - Laterza - Bari, 1990 - vol. II.

-    De Stefano, Antonio: Le Confraternite religiose fra passato e presente in S.Andrea dello Jonio” - Ediz. Vivarium - Catanzaro, 2002.

-    Enciclopedia Europea - Garzanti - Milano, 1977 - vol. IV., s.v. Demetra -

-    Inno a Demetra: testo greco e traduzione italiana inPaduano, Guido: Antologia della lette-ratura greca “ - Zanichelli - Bologna, 1990 - vol. I, pp. 298-323.

-    Mattei, Saverio: Del rapporto fra la Chiesa e il Teatro presso i moderni”, in “Opere” - Porcelli - Napoli, 1779 - T. VIII.

-    Moltmann, J.: Il Dio crocifisso - Queriniana - Brescia, 1973.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                           (25-02-2003)

 



12 E’ il verbasco  (o tasso barbasso), un’erba formata da un lungo racemo lanuginoso, che, ben bene seccato al sole e poi impregnato di olio, fungeva da torcia; e poiché, una volta acceso, si consumava molto lenta-mente, durava per tutto l’arco della processione.

13            V. Palazzi-Folena: Dizionario della lingua italiana - Loescher, Torino - 1992 - s.v. confronto

14 Il prof. De Stefano, recentemente, (nella sua tesi di Laurea "Le Confraternite religiose fra passato e pre-sente in S.Andrea dello Jonio” - Ediz. Vivarium - Catanzaro, 2002)  ha cercato di mostrare che la Congrega aveva una particolare funzione di "paciere" tra le “discordie” esistenti nelle varie classi sociali, forse per il fatto che nello Statuto del SS. Sacramento (art. I - r.117) c’è l’esplicita prescrizione che i Congregati “s'inter-pongano  à comporre le discordie, specialmente tra Confratelli”.

                 Ora, io ricordo ancora (perché mio padre fu anche lui – nel periodo della mia infanzia - Priore della Confraternita del Santissimo) la “gara” che si faceva un tempo tra le Congreghe - durante il periodo della Candelora – per la raccolta dell’olio domestico “nuovo”, e - durante le varie Festività – per l’addobbo dei “parati”, per la ricerca dei migliori “predicatùri” e per la ricchezza e bellezza dei “fùachi articiali”, e – durante le processioni religiose – per la raccolta delle “offerte” in denaro; così come ricordo anche la “gioia compiaciuta” di noi ragazzi quando fra i nostri amici potevamo dire con un certo vanto: “Chist’annu vincìu u Cristu” oppure “vincìu ‘a Madonna”, a seconda della Congrega cui ciascuno apparteneva.

                 E so anche che agl’inizi del secolo scorso, nel nostro paese, membri della stessa famiglia, - i quali  per tradizione appartenevano ad una stessa Confraternita -, per  rancori personali son passati volutamente ad una Congrega diversa.

                 Tuttavia, la mia opinione è che non c'erano - come non ci sono - tra i Congregati discordie o dissensi così profondi quali l'autore vuol far credere; ma - soprattutto - che la Congrega non ha mai svolto una funzione "pacificatrice" all'interno della Comunità. Infatti, come dice il “saggio” Orazio in una delle sue Epistole (l. I, X, 24), “la natura, anche se la scacci col forcone, torna sempre indietro”, a significare quasi che ci sono in ciascun individuo atti e contegni insopprimibili, più forti di noi, in quanto a noi connaturati, che necessariamente si riflettevano e si riflettono anche a livello di Congreghe religiose.

D’altra parte, le discordie, se non mancavano, erano un fatto normale, scontato, dovuto alla struttura agricolo-pastorale della passata civiltà e cultura e alle profonde disparità economico-sociali che esistevano fra gli abitanti, e che si ritrovavano non solo nell’ambito delle numerose Congreghe che c'erano (ben 6, come rileva l'autore!), ma anche all'interno delle singole Congreghe (v. - per la festa del Corpus Domini - le 3 processioni del Santissimo, nelle quali l'ombrello e le aste del palio erano riservati prima "ar'i galantòmini", poi "ar'i mastri" e infine "ar'i zzappatùri").

15 Veste confezionata a Napoli nel 1906.         

16 L’ordine di processione delle Congreghe (la cui importanza si può logicamente dedurre dalla maggiore o minore vicinanza ai Sacerdoti) è il seguente: prima quella di S.Andrea, poi quella del SS.Rosario, quindi quella dell’Immacolata e, infine, quella del SS. Sacramento, che precede immediatamente il Parroco e il clero che l’accompagna.

I confratelli indossano un camice bianco cinto di corda e – sulle spalle – portano una "muzzetta",  rispetti-vamente di color rosso bordato di oro, nero bordato di giallo, celeste bordato di bianco, e rosso bordato di bianco.

17 Un tempo i bambini, per assistere alla Confronta, uscivano tenendo in mano la tradizionale "cozzùpa cull’ ùavu", di forma varia (“o panarìaddru opp. cìarvu”).

18  Queste visite erano almeno tre per parte.       

19  I reggitori delle statue sono 12 (6 per ciascuna statua: 4 alle stanghe laterali e 2 nella parte centrale!); e la tradizione vuole che siano tutti “rosarianti”. Comunque, il I° anno di ogni nuova gestione (abitualmente biennale), possono partecipare anche i 4 del Comitato uscente (cioè, il precedente Procuratore come “centro d’avanti” della Madonna; il precedente Priore come “centro d’avanti” del Cristo e i rispettivi Vice come “centri d’arrìadi”). E qualora - per qualche motivo particolare (come, per esempio, quello di dover ot-temperare a un “voto” fatto) - sia accettato come reggitore anche qualche cittadino appartenente a Congre-ga diversa, costui può reggere solo una stanga laterale.                                              

20  àsili o àsali = filato grosso di fibbra di ginestra, ch'era usata per tessuti rustici, sacchi, imbottiture.

21 I tre “inchini” delle statue sono una cosa molto delicata e devono avvenire simultaneamente in entrambe le  squadre. Perciò sono meticolosamente preparati - dai reggitori delle due statue - durante il percorso che fanno per le vie del paese, negli spiazzi che consentono loro di operare tale manovra: quelli del Cristo “provano” in via Regina Margherita (davanti alla casa di Sesto Bevivino e davanti alla Chiesa di S.Andrea) e poi a Piazza Marconi (Malajìra); quelli della Madonna in via Mario Pagano (dietro l’ex negozio di tessuti di Nicola Greco) e in via arc. Antonio Mongiardo (davanti alla casa Dominijanni), prima dell’imbocco per via Trento.

22  Pronti?…Calàmu! = Pronti?…Abbassiàmo!  (facendo l’inchino).

23 E’ successo, infatti, talora che dalle mani di qualcuno dei “reggitori” sfuggisse l’impugnatura della stanga, con grave pericolo per le persone e per la statua, e con grave apprensione della gente, la quale facilmente attribuisce al fatto il carattere di evento foriero di prossime disgrazie.

24  Vedi l’intervista al prof. Bruno Voci in “De Stefano, Antonio:op. cit.,” pg. 168.

25 Mattei, Saverio: “Del rapporto fra la Chiesa e il Teatro presso i moderni”, in “Opere” - Porcelli -  Napoli, 1779 - T. VIII, pgg. 159-60.

26  De Stefano, Antonio: op. cit., pg. 94.

27 Le due dee, più che come persone distinte, appaiono – nel mito e nel culto – come due aspetti di un’unica divinità, ch’è insieme madre e figlia - v. Enciclopedia Europea – Garzanti – Milano, 1977 - vol. IV,  pg. 36 - s.v. Demetra -

28 Inno a Demetra: testo greco e traduzione italiana in “Paduano, Guido: Antologia della letteratura greca “ – Zanichelli – Bologna, 1990 - vol. I, pgg. 298-323.

29 Beye, Rowan Charles: Letteratura e pubblico nell’antica Grecia, in “La civiltà greca – Storia e cultura” – Laterza - Bari, 1990 - vol. II, pg. 110.

30 Il Beye (op. cit., vol. II, pg. 110) osserva giustamente che per i popoli delle odierne civiltà industriali è assai difficile rendersi conto delle angosce connesse con l’agricoltura e con la sopravvivenza umana.

Ma è utile pensare che un tempo le vie di comunicazioni erano rarissime e i mezzi adoperati erano spesso rudimentali e lenti; sicchè le scorte alimentari prodotte localmente non potevano venire integrate dalle importazioni. Inoltre, la refrigerazione non esisteva e perciò gli alimenti coltivati e immagazzinati dovevano durare fino al raccolto successivo. Non c’era altra alternativa, se non la morte per fame. Nulla era allora più fondamentale, eppure nulla era più aleatorio del raccolto annuale; chè la siccità, i freddi precoci, le improv-vise grandinate erano sempre in agguato e potevano significare la repentina estinzione di alcuni membri della comunità o della famiglia.

31   Barbero, Luigi: Civiltà della Grecia antica - Storia letteraria e testi - Mursia - Milano, 1990 - pg. 72.

32   Beye, Rowan Charles: op. cit., vol. II, pg. 112

33   Moltmann, J.: Il Dio crocifisso - Queriniana - Brescia, 1973 - pg. 299.

34   Moltmann, J.: op. cit., pg. 323.